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I SANTI DELLA LEGIONE TEBEA
Il Cristianesimo si diffuse lungo le strade tracciate dai Romani, nelle città, nell’esercito, nella burocrazia statale, favorito da quella cultura cosmopolita che andava sempre più affermandosi, man mano che cresceva l’integrazione fra il centro dell’impero e le province più lontane. Quando il dominio romano cedette sotto l’incalzare delle popolazioni germaniche, la Chiesa tentò di guidare la società attraverso mille difficoltà, ma restava prigioniera della propria romanità, estendeva la propria influenza solo nella misura in cui si era estesa la cultura romana. Non riusciva a trovare la chiave per penetrare sino nelle valli e sulle montagne, per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di quella gente che fieramente, da millenni, conduceva una vita scandita dal corso del sole e regolata su ancestrali tradizioni. Mancavano esempi di santi che colpissero l’immaginazione delle popolazioni rurali e montanare, legate a culti rudi e forse violenti, che risvegliassero in loro sentimenti prima di tutto di rispetto, poi di devozione e di fede. In questo clima di attesa si collocarono con grande fortuna la storia e la leggenda del massacro della legione Tebea.
Nel punto in cui la Valle del Rodano si stringe sino a consentire il passaggio solamente al fiume e ad una strada, si trova la porta del Vallese, punto obbligato lungo un fondamentale itinerario fra l’Italia e la Germania attraverso il valico del Gran San Bernardo. Qui, al tempo dei Romani, si trovava Agaunum, presidio militare e posto doganale, poi ribattezzato St. Maurice. Nella prima metà del sec. V Eucherio, vescovo di Lione, visitò, come altri pellegrini dell’epoca, una piccola basilica addossata all’imponente parete rocciosa che incombe su Agaunum. Questa basilica era stata eretta, nel sec. IV, dal vescovo Teodoro (o Teodulo) di Octodurus (Martigny), in memoria dei martiri della legione Tebea, massacrati fra queste montagne. Egli stesso, circa un secolo dopo il fatto, ne aveva raccolto i resti. Poiché nessuna relazione scritta esisteva sull’argomento, Eucherio raccolse e tramandò il racconto che segue: Massimiano, associato da Diocleziano al potere nella parte occidentale dell’impero, mosse da Milano a perseguitare i cristiani con un esercito cui si era unita una legione orientale, chiamata Tebea, i cui uomini si erano convertiti alla fede di Cristo. Nel corso della spedizione (che molti studiosi identificano con quella condotta intorno al 286 da Massimiano contro i Bagaudi, contadini galli parzialmente cristianizzati in endemica rivolta contro Roma), i Tebei appresero lo scopo della missione e risolsero di non macchiarsi le mani col sangue di loro correligionari. La reazione di Massimiano fu feroce: la legione cristiana fu sottoposta due volte a decimazione (nell’ordina-mento militare romano ciò avveniva mediante fustigazione seguita da decapitazione). Infine, poiché i Tebei, esortati dal centurione Maurizio e dagli ufficiali Esuperio e Candido, persistevano nel loro proposito, furono passati tutti a fil di spada.
L’archeologia ha in parte confermato il racconto del vescovo di Lione, riportando in luce la piccola chiesa costruita da San Teodoro e fornendo altri riscontri. Diverse contestazioni sono state tuttavia mosse alla sua storia, come quella del numero (6600) dei legionari massacrati, che pare inverosimile. In realtà egli riporta solo quattro nomi: Maurizio, Esuperio, Candido e Vittore (quest’ultimo coinvolto nel massacro benché non appartenesse alla legione) e si limita a dire che a quel tempo la legione romana era composta da 6600 uomini, senza affermare esplicitamente che tanti fossero i martiri, anche se lo lascia intendere. Molti studiosi sono propensi a credere che in realtà non di una intera legione si trattasse, ma di una vexillatio, cioè di un reparto d’ausiliari, composto da 500, 1000 uomini al massimo, ma non manca chi è propenso a ridurre l’avvenimento ad un episodio ancora più circoscritto o addirittura a negarlo del tutto.
«Dal fatto che Sant’Eucherio ricorda solo quattro nomi, si potrebbe sospettare che essi soltanto siano i martiri locali autentici, forse militari, il cui rinvenimento, avvenuto in circostanze imprecisate, probabilmente in un cimitero cristiano antico, avrebbe fatto sorgere l’idea che tutte quelle salme fossero di martiri e di soldati, trucidati anch’essi nella stessa persecuzione: di qui l’idea del massacro dell’intera legione Tebea. Fatti di questo genere non sono rari né insoliti nell’agiografia antica». (1)
La Passio Acaunensium Martirum ebbe un’eco straordinaria fra i popoli dell’arco alpino e il culto dei martiri tebei si diffuse ampiamente. Scrittori zelanti iniziarono a stendere elenchi sempre più lunghi e dettagliati di legionari scampati alla strage e martirizzati poi altrove. Fiorirono racconti di legionari in fuga per giogaie e forre, inseguiti da persecutori pagani, spinti a vivere come eremiti fra cocuzzoli panoramici e greggi belanti. Secondo i racconti degli agiografi essi fuggirono non per viltà, ma per avere l’opportunità di portare la buona novella a genti ancora pagane. Tutti si diedero alla predicazione del Vangelo fra le popolazioni delle montagne e delle campagne sino a coronare la propria esistenza col martirio.
I Tebei della leggenda giunsero ad Agaunum per il primo livello di viabilità, quello ufficiale, come soldati di Roma, pedine del Potere dominante, strumenti di repressione. Lo lasciarono ribelli, disertori, perseguitati, fuggiaschi. Questo li legittima a servirsi dei sentieri del secondo livello, quello alternativo, a inoltrarsi per boschi e valli, a salire sui monti abitati dai pastori, a entrare nel cuore stesso del mondo alpino pagano. Il montanaro, insofferente per atavico istinto alle leggi imposte, di cui ignora la legittimità e l’origine, finisce per accordare loro la propria simpatia e fiducia, ne ascolta le parole: ed essi, finalmente, potranno parlargli di Dio.
Era quanto occorreva alla Chiesa per sovrapporre il nuovo culto a luoghi e santuari fortemente radicati nella coscienza nazionale dei popoli locali. Teodulo, Evenzio, (2) Giuliano, Porciero, Besso, sono cinque martiri pseudo tebei, quattro dei quali rimangono legati a spaventosi precipizi da cui sarebbero stati gettati: la sovrapposizione a luoghi di culto dove veniva praticato il sacrificio umano con questa prassi è trasparente.
La spiegazione più plausibile consiste nell’occupazione di queste zone da parte di popolazioni celtiche. Altri esempi possiamo infatti individuare nell’area celtica. A Borgo San Donnino, oggi Fidenza (Parma), l’attributo del protettore San Donnino (festa il 9 ottobre) è la propria testa recisa e a Bologna gli attributi di San Procolo (festa il 1° giugno) sono un’armatura e la testa che regge in mano.
«Queste figurazioni della testa umana delle valli cuneesi e liguri non sono da identificarsi colle cosiddette “têtes coupées”, sculture di teste di uomini uccisi assai frequenti nella Gallia Meridionale, rappresentate isolate o a gruppi o a volte, come nel cosiddetto Cerbero di Genova o nella Tarasca di Avignone, tra le zampe di mostri favolosi o di leoni, con un simbolismo che è poi continuato sin oltre l’epoca romanica (che si ripete a Pavia sulla facciata del San Michele e persino su quella della Certosa), sia pur sostituendo al cranio umano, in quest’ultimo caso, “teste di mori” di gusto classico rinascimentale. Ciò non esclude che le “têtes coupées” e le raffigurazioni delle teste isolate in argomento abbiano una stessa origine in una fase di civiltà più antica. D’altra parte gli scrittori classici indicano esser comuni ai Galli e ai Liguri tali selvagge costumanze e, pur se in seguito questi usi vennero a cessare, è tuttavia possibile che ne sia rimasta traccia e che attraverso le generazioni si sia attribuito alla testa un valore o religioso, o protettivo, che ne ha assicurato la sopravvivenza... Vi sono zone del Piemonte alpino e della Liguria montana, tra di loro ben lontane e quasi alle due estremità dell’arco presumibilmente occupato dai popoli liguri in Italia, le cui popolazioni, pur non avendo certamente alcun contatto tra di loro, né attuale affinità di linguaggio, hanno conservato, ciascuna per proprio conto, costumanze simili, giustificabili solo con una lontana unica origine comune.
Questa persistenza nella raffigurazione della testa umana, con un significato ormai perduto o del tutto modificato, costituisce una traccia di una tradizione scomparsa, la cui importanza ed estensione non è ancora valutata ma si può intravedere.
In Provenza e nel versante francese delle Alpi queste raffigurazioni sono numerose e importanti, comunque maggiormente conosciute e studiate delle nostre, ma il collegamento coi nostri esempi, anche qui non è ancora avvenuto ma indubbiamente s’impone, e ciò estende l’area di una remotissima unità di popolazione e di usanze...
Dai primi elementi sin qui disponibili si ha la conferma che è tradizione limitata all’area storicamente indicata come abitata dagli antichi popoli liguri o celto liguri...». (3)
Secondo la tradizione, San Pantaleone e San Giorgio subirono il martirio per decapitazione, dopo avere sopportato incredibili torture. La grande venerazione per San Giovanni Battista e la coincidenza della sua festa con uno dei due solstizi sono legate alle modalità del suo martirio. Anche a San Pancrazio, giovinetto romano martirizzato mediante decapitazione (e tra l’altro ineccepibile patrono dei giovani di azione cattolica), sono dedicati santuari che lo vedono trasformato in legionario tebeo. Fra i presunti fuggiaschi della Legione Tebea, l’unica alternativa alla decapitazione è rappresentata da un salto da una rupe, come riferiscono tradizioni per Teodulo, Evenzio, Giuliano e Besso. Fra i Santi che portavano in giro la propria testa, la tradizione popolare pavese annovera anche il filosofo Severino Boezio, fatto imprigionare e poi condannato a morte dal re goto e ariano Theuderic (Teoderico, Teodorico), sotto l’accusa di praticare la magia. Egli divenne poi, per i cattolici, un campione della coerenza con le proprie idee, anche di fronte alle persecuzioni. Una leggenda popolare vuole che, raccolta la propria testa dopo la decapitazione, egli si recasse di persona sino al luogo della sepoltura.
Proviamo a tracciare un identikit del santo ideale, atto a riconvertire gli antichi culti guerrieri, contadini e montanari:
a) un essere dotato di straordinari poteri, invulnerabile, tanto da passare indenne fra i più spaventosi tormenti, come San Pantaleone, forte tanto da uccidere un drago, come San Giorgio, così potente da beffarsi della morte facendo due miglia con la propria testa in mano, come St. Denis o di comandare alle forze della natura, sia da vivo sia da morto, come San Grato;
b) un essere morto per decapitazione (San Pantaleone, San Giorgio, St. Denis, San Giovanni Battista, i Tebei) o che ha avuto a che fare con teste mozzate (San Grato);
c) possibilmente un militare (Tebei, San Martino, San Giorgio);
d) altrimenti un taumaturgo (San Grato, San Martino, San Pantaleone).
Inutile dire che la fortuna e dunque l’importanza del santo è direttamente proporzionale all’accumulo su di sé del maggior numero di queste caratteristiche, da cui la tentazione (o l’esigenza) di accrescerle o completarle con la creazione di leggende. (4)
1. A. AMORE, voci: Maurizio, Esuperio, Candido, Vittore, Innocenzo e Vittore, santi, martiri, Enciclopedia cattolica.
2. Del guerriero Evenzio si conserva una bella raffigurazione a Pavia negli affreschi della cripta di San Giovanni Domnarum (sec. XI); non è escluso che dal suo nome, deformato, derivi quello del leggendario secondo vescovo Invenzio, successore di San Siro.
3. A. DORO, Persistenza delle figurazioni della testa umana nelle Valli cuneesi e nella Liguria montana, in Boll. della S.P.A.B.A., a. XVIII, Torino, 1964.
4. Cfr. R. PETITTI, Sentieri perduti, Ivrea, Priuli e Verlucca, 1987.