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I MORI E LA RUOTA
Oggi ti parlerò di Mori, di Saraceni, di mussulmani e di tanti altri argomenti che si collegano ad essi nei ricordi e nella storia. Sul finire del sec. IX, pirati Saraceni provenienti dalla Spagna si erano stabiliti in una località fortificata del golfo di Saint Tropez, detta Fraxinetum. (2) In seguito, cresciuti di numero, essi condussero terribili incursioni nei territori circostanti, saccheggiarono poveri villaggi di montagna ed ebbero come bersaglio preferito delle loro scorrerie le carovane di pellegrini che attraversavano le Alpi per andare a Roma.
Nel luglio del 972, durante una di queste spedizioni banditesche, catturarono San Majolo, abate di Cluny, che stava attraversando il passo del Gran San Bernardo con alcuni confratelli e diversi pellegrini diretti a Roma. I pirati chiesero ai monaci cluniacensi un forte riscatto per riconsegnare il santo abate. Senonché l’episodio fu la classica goccia che fa traboccare il vaso, e l’indignazione fu tale che molti baroni italiani e francesi si unirono per punire una volta per tutte quegli infedeli che erano divenuti lo spauracchio di ogni pellegrino. Questa federazione di nobili, capeggiata dai conti di Provenza e da Arduino di Torino e spinta anche - come dice qualche malizioso - dalla speranza di un ricco bottino, attaccò Frassineto, massacrò la comunità mussulmana e cancellò per sempre la colonia saracena. Fra quei cavalieri combatteva anche il nobile provenzale Bevons de Noyers, che una tradizione tardiva vorrebbe identificare con il “San Bovo” patrono di Voghera.
Colonie saracene si mantennero a lungo in alcune valli del cuneese. Dal golfo di Genova, dalla base fortificata di Portovenere - pronta ad accogliere le flotte corsare che arrivavano dal Maghreb (le attuali Tunisia e Algeria) - gli arabi si spinsero sino ad Alba e a Pedona. (3)
Il monaco che descrisse tali incursioni parlò di chiese saccheggiate, di piazze piene di cadaveri, di tombe adoperate come abbeveratoio per le pecore, di cittadini incatenati che venivano mandati alle miniere:
«Deponi il canto e inizia il pianto, o città emerita, piangi fiumi di lacrime dal tuoi occhi perché ogni gioia è cessata e si è allontanata da noi».
Una tradizione popolare racconta che i Saraceni abbiano fondato un regno sul nostro Appennino, retto da un certo principe Marco che si era convertito all’IsIàm. La capitale sarebbe stata Precipiano, nella valle Scrivia. Del resto non è difficile supporre che le Alpi Marittime, come gran parte dell’entroterra tra Luni e la Provenza, anche se non dominate permanentemente dai Saraceni, abbiano subito per lungo tempo almeno la loro influenza commerciale e la loro penetrazione militare.
A Torricella Verzate, nell’Oltrepò Pavese, la torre d’ingresso al borgo si chiamava Torre dei Saraceni, o Torre Paterna. Come mai un richiamo così chiaro ai guerrieri mussulmani? A Torricella si festeggia la sagra il 3 maggio, giorno delta Santa Croce, ed esiste ancor oggi una Scala Santa, i sui gradini appoggiano su terra portata dalla Palestina. Nella vicina Verzate, presso l’attraversamento dell’omonimo torrente, esisteva un ricovero per pellegrini fondato dal cavalieri crociati. (4)
La vicina Mornico conserva il viso di un Moro nel proprio stemma comunale.
Nell’anno 908 Robbio, ai confini fra la Lomellina e il Vercellese, subì l’incursione di una banda di Saraceni.
E a Pavia, allora splendida capitale, che cosa possiamo rintracciare? Se provassimo a scavare alla ricerca di una storia e di una cultura sommerse non troveremmo molto. Gli storici e gli archeologi non sanno dirci con esattezza neppure dove fosse allora il palazzo Reale, né sanno ricostruire il perimetro preciso delle mura cittadine, né mostrarci una chiesa o le rovine di un funduc (“fondaco”, stabilimento commerciale) o un laboratorio di alchimista.
Un’immagine è però rimasta nella memoria collettiva: quella di un palazzo con una torre quadrata, al cui interno c’è una scala lunghissima: settanta gradini per ogni piano. Su un ampio pianerottolo una bocca di forno. Sotto la scala, ad una certa profondità, una specie di ruota si muove lentamente in un liquido verde, denso come l’olio. Sono procedimenti d’alchimia. Ricordiamo che a Pavia, al principio del sec. XIII, studiò uno del più grandi alchimisti di tutti i tempi, sant’Alberto Magno, frate domenicano, maestro di san Tommaso.
Nella torre sono tre porte, conducono tutte allo stesso luogo. Una di esse è molto grande ed introduce ad un tunnel buio. La torre è fuori dalle prime mura della città, verso il fiume. Nel liquido sotterraneo sono immerse le armi: palle di ferro chiodate, scudi e spade. L’olio in cui gira la ruota è velenoso. Rende incurabili le ferite. È fatto con essenze orientali importate appositamente. Si tratta di un luogo misterioso, legato a strani influssi di credenze orientali. La ruota ha girato per secoli e forse continuerà a girare, sepolta a grande profondità, protetta da una rete di gallerie segrete, piene di trabocchetti. I Mori, all’origine di tutto questo: Mori col volto coperto da lunghi ‘ascesc neri e blu, come i Tuareg di oggi. Erano forse i bellicosi e puritani Almoravidi (almurabitin), che fra il sec. X e l’XI vennero dal profondo sud dell’attuale Mauritania a conquistare un enorme impero, che comprendeva gran parte dell’attuale Algeria e della penisola iberica. Portavano in capo elmi che parevano turriti, quasi come corone; montavano su alti cammelli, che in Europa abbandonarono per sostituirli con veloci cavalli arabi. Marchiavano a fuoco tutto: gli animali, gli schiavi, il bottino di guerra, persino i mobili e le porte dei loro palazzi.
Di quella torre s’è persa ogni traccia.
Dovremmo scavare molto, ma chi poi ci garantisce che saremmo in grado di spiegarci la natura di reperti così estranei al nostro mondo, impregnato di razionalismo?
Nessun luogo dell’Europa mediterranea, comunque, fu esente dall’influsso e dal fascino esercitati dagli splendori della cultura islamica. Non poté certo esserne esente proprio Pavia, che in quei tre o quattro secoli fu, tra le tante capitali di una terra sconvolta da lotte feudali, una delle più in vista.
La quantità di commercio che passò da Pavia diretta verso l’interno d’Europa, alle varie corti regali ed imperiali dei signori d’allora, non doveva aver molto da invidiare al commercio che, nello stesso periodo, arricchiva Venezia: (5) porto terminale dei viaggi per mare quella, porto terminale dei viaggi sul fiume questa nostra città annoverata tra le residenze imperiali. Le torri delle famiglie nobili si moltiplicavano (come i telefoni ed i fax al giorno d’oggi), per controllare l’arrivo delle mercanzie da lontano, lungo i percorsi fluviali e terrestri.
Traffici di ceramiche, stoffe ed oggetti preziosi dall’Oriente mussulmano durarono molti secoli: le mercanzie risalivano il Ticino sino ai porti pavesi, evitando le insicurezze delle strade medievali.
Le facciate delle chiese del Medioevo pavese sono intarsiate di scodelle di ceramica dai delicati colori pastello. Su alcune figurano splendidi pavoni; su altre scritte in caratteri arabi, quasi ricamate, che recitano formule per secoli ritenute misteriose. Basta che alzi gli occhi e le potrai vedere anche tu. Ve ne sono nelle murature di San Michele, di San Pietro in Ciel d’Oro, di San Lanfranco, ve ne erano sulla torre del Comune.
Fra la civiltà dell’Oriente e la forza dell’Occidente per molto tempo non vi fu una precisa frontiera, o per lo meno non riusciamo ad identificarla con precisione.
Solo con le Crociate si precisò la geografia delle zone d’egemonia culturale e di controllo politico e militare.
Allora nacquero uomini mezzi frati e mezzi guerrieri che fondarono ospizi e organizzarono carovane di pellegrini, non più dirette soltanto a Roma o a Santiago de Compostela (San Giacomo Matamoros, punta avanzata del dominio franco oltre il regno delle Asturie), (6) ma sino al Libano, ai regni crociati di Siria, a Gerusalemme, ormai minacciata dall’incalzare dei Turchi.
Le crociate favorirono il diffondersi di una cultura franca ed insieme orientale, che faceva propri i cicli dei racconti e le tradizioni della cavalleria, di re Artù e di Tristano e Isotta: tradizioni celtiche e germaniche, alle quali si sovrappose tutto un patrimonio culturale del vicino Oriente, reinterpretato in un crogiolo che avrebbe dato vita alla nuova civiltà occidentale.
Pellegrini e crociati riportarono molti oggetti dalla Palestina e dall’Oriente: mercanzie, ma anche reliquie, vere e, per lo più, false.
Tra le reliquie che furono accumulate dai Visconti nel loro Castello, si ricordano: lembi di veli e di sudari della Deposizione di Cristo; frammenti di tuniche e mantelli di vari personaggi biblici; pezzi di legno della mangiatoia e peli del bue e dell’asino di Betlemme; latte e capelli della Madonna; pezzi di alberi toccati da Gesù; denti di profeti, le pietre con cui si diceva fosse stato lapidato Santo Stefano; pezzi di pane moltiplicato da Gesù Cristo nel miracolo famoso dei pani e dei pesci, quando addirittura il primo vescovo di Pavia, San Siro, sarebbe stato presente come l’anonimo ragazzino che li porgeva. Inoltre, vi erano un corno di liocorno e l’enorme testa del dragone che sarebbe stato ucciso da San Giorgio.
Delle undici spine della corona di Cristo conservate a Pavia, ne rimangono oggi solo tre, dopo furti e dispersioni, che continuano ad essere venerate in Duomo, custodite nella “Nivola” lignea settecentesca dipinta d’oro e d’argento. Nel sec. XVII, le altre si trovavano: due nella chiesa del Carmine, due a Santa Maria di Giosafat in Borgo Ticino, e una ciascuna nelle seguenti chiese: San Dalmazio, Santa Clara, San Sebastiano Maggiore, Santa Maria delle mille virtù.
NOTE
1. Cfr. A. ARECCHI, La Saga del Ticino, Magenta, Quaderni del Ticino, 1982 (2^ed.: Pavia, 1989).
2. Frassineto, odierna La Garde-Freinet.
3. Oggi Borgo San Dalmazzo, alle porte di Cuneo.
4. Cfr. A. ARECCHI, Pavia e i Cavalieri del Graal, Pavia, Liutprand, 1997.
5. Chiamata dagli Arabi Al bendig, la città dei fucili.
6. Il viaggio a Santiago de Compostela simboleggiava la ricera infinita dell’uomo e costituiva, per gli Alchimisti, un’allegoria dell’iniziazione ermetica.