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CIVILTA' PERDUTE E RITROVATE IN AMERICA - 2
La fabbrica della storia con falsi messaggi di pietraIl documentario “Lost Civilizations of North America” presenta un’immagine distorta della preistoria americana. Le evidenze archeologiche presentate per sostenere un antico contatto pre-colombiano consistono in frodi da gran tempo screditate.
"Le nostre storie dovrebbero riferire solo ciò che si sa essere vero e la falsità dovrebbe sempre essere bandita, ovunque venga riconosciuta".
-David Wyrick, accusato come autore, ma piuttosto vittima, delle frodi delle “Sacre Pietre” di Newark (1860)
Come abbiamo detto nella prima parte di questa discussione (SI, Sett./Ott. 2011), il documentario The Lost Civilizations of North America (prodotto da Steven Smoot, Rick Stout e Barry McLerran) si propone come una ricerca del "mondo affascinante dell’antico Nord America, e del perché gli artefatti e le evidenze di antiche civiltà siano stati perduti e ampiamente ignorati" (cit. dal sito del DVD: www.lostcivilizationdvd.com/documentary.html). Le antiche civiltà che si ritiene abbiano lasciato il proprio segno nel Nord America pre-colombiano includono, come minimo, gli Egizi, gli Ebrei e i Celti. Il documentario riconosce che "gli archeologi della corrente prevalente" non accettano la pretesa che alcuna di quelle civiltà abbia avuto contatti con le culture indigene del Nord America, ma propone i discorsi di certi "diffusionisti", nessuno dei quali risulta essere archeologo (né “della corrente prevalente” né in altro modo). Quei diffusionisti dicono che un gran numero di oggetti sembra sostenere l’ipotesi della "civiltà perduta", e cercano di spiegare perché gli archeologi prevalenti abbiano tanto a lungo ignorato o soppresso tali evidenze di numerosi episodi di scambio intercontinentale.
Qual è l’evidenza d’una civiltà scomparsa in Nord America?
Nelle elaborazioni che trattano di civiltà scomparse nel Nord America si trova una grande e impressionante varietà di immagini di oggetti, alcuni dei quali sono icone riconosciute dell’archeologia americana, mentre altri sono meno familiari e decisamente ostici. Il narratore spieca questi accostamenti conturbanti come segue:
Molti oggetti sono mostrati in questo film. Alcuni oggi sono riconosciuti come autentici dalla comunità scientifica, e alcuni non lo sono. In molti casi gli oggetti autentici possono essere mostrati insieme a quelli controversi. Ciò è fatto in parte per eludere la difficoltà di determinarne l’autenticità, e anche per illustrare un conflitto che esiste tra gli antropologi della corrente predominante e quelli che sono stati definiti "diffusionisti".
Figura 1 a. Dichiarata come scoperta in un antico tumulo della Virginia occidentale, l’iscrizione della Grave Creek Stone (in alto) riflette un’impossibile mescolanza di diverse lingue scritte del Vecchio Mondo (Grave Creek Mound Museum).
Figura 1 b. L’oggetto in basso è una delle centinaia di "Michigan Relics" prodotte alla fine del sec. XIX e all’inizio del XX, che si voleva provassero la presenza di ogni tipo di popoli del Vecchio Mondo nell’antichità del Nuovo Mondo (courtesy of Thom Bell).
Ci sono numerosi problemi, perché tale giustificazione cancella intenzionalmente la distinzione tra gli antichi oggetti verificabili, quelli di dubbia autenticità e quelli dichiaratamente fraudolenti.
Innanzitutto, tale presentazione dichiara falsamente che c’è una controversia scientifica legittimata sull’interpretazione di tali oggetti. La presentazione di tale pretesa controversia in questo modo è molto simile al tentativo dei creazionisti di caratterizzare le loro argomentazioni come una discussione con i biologi evoluzionisti. Come con quell’altro inganno più familiare, non c’è una controversia scientifica. Non conosciamo nessun antropologo contemporaneo che pensi ci possa essere una validità scientifica per gli oggetti infami presentati in questo documentario, come le Michigan Relics (Halsey 2004), la Grave Creek Stone (Lepper 2008), la Bat Creek Stone (Mainfort and Kwas 2004), e la Newark "Holy Stones" (Lepper and Gill 2000) (figura 1).
L’effetto della presentazione di questi oggetti truffaldini in giustapposizione con antichi capolavori come la pipa decorata Adena (figura 2), che pure viene mostrata nel documentario, servirebbe a convalidare frodi infami alle spese degli oggetti autentici. Appare deliberatamente falsificatorio e detrattivo rispetto alle realizzazioni degli antichi artigiani Nativi Americani.
In secondo luogo, crediamo che la giustificazione del documentario per mescolare oggetti autentici con altri "controversi" finisca per esagerare la "difficultà a determinarne l’autenticità". In ogni analisi archeologica, la chiave per determinare l’autenticità di un oggetto ritenuto antico è quella di stabilirne il contesto. Per nessuno – virtualmente – negli oggetti in discussione, mostrati nel documentario, c’è un’informazione attendibile a stabilirne il contesto archeologico. Innanzitutto, nessuno degli oggetti mostrati, o pezzi simili, proviene da uno scavo archeologico moderno, effettuato con gli strumenti e le tecniche della fine del sec. XX. Questo è un punto cruciale: tutti gli oggetti ritenuti antichi, con scritte del Vecchio Mondo, sono stati trovati in siti del Nuovo Mondo durante una ristretta finestra temporale (soprattutto tra la metà del sec. XIX e il principio del XX), un periodo in cui vi era una gran controversia sulle origini dei costruttori di tumuli del Midwest e del Southeast. Negli scavi archeologici ben più estesi, compiuti dal 1930 a oggi, non sono mai stati scoperti simili oggetti da architetti professionisi. Possiamo pensare a una categoria di oggetti non legittimati, di cui non sono più stati trovati esemplari quando gli studi archeologici sono stati affidati a esperti, con una metodologia scientifica.
Figura 2. La pipa Adena effigiata è un attrezzo tubolare per il fumo decorato in maniera notevole, fatto di pietra da pipe dell’Ohio. È stata trovata nel tumulo Adena in Chillicothe, Ohio, che ha dato il nome alla cultura Adena, fiorita tra l’800 a.C. e il 100 d.C.. (Ohio Historical Society)
In molti casi, inoltre, l’informazione sul contesto storico di tali presunti ritrovamenti ha dimostrato che si trattava di frodi o truffe. Il narratore del video asserisce, per esempio, che la Bat Creek Stone fu "trovata usando moderni metodi, nel contesto ambientale originale" (aggiungendo enfasi) (figura 3). Donald Yates, un noto diffusionista che ha un dottorato in studi classici, va oltre e dichiara che i detrattori non possono ignorare tale oggetto, perché fu trovato in uno "scavo ufficiale, compiuto dalla Smithsonian Institution," come se solo questo fatto potesse essere considerato come una sufficiente evidenza, dagli archeologi professionali o da chiunque altro, per accettarne l’autenticità.
È certamente vero che John Emmert, l’uomo che dichiarò di aver trovato la Bat Creek Stone, lavorava per la Smithsonian Institution all’epoca della scoperta. In quel periodo, la Smithsonian aveva assunto un assortimento eclettico di persone a vari livelli d’esperienza, per condurre operazioni locali. Emmert risulta essere stato uno degli scavatori meno qualificati, e in seguito fu licenziato per questioni relative alla qualità del suo lavoro. (Mainfort e Kwas 1991, 12). Anche tralasciando le ovvie questioni relative alla sua competenza, dal momento che Emmert scavò la pietra nel 1889, i suoi metodi potrebbero difficilmente essere qualificati come "moderni" in ogni senso. Infine, dal momento che gli archeologi Robert Mainfort e Mary Kwas hanno scoperto la fonte usata dai truffatori dell’iscrizione di Bat Creek, dimostrando in modo conclusivo che era una frode (Mainfort and Kwas 2004), la considerazione delle qualifiche di Emmert è superflua. Appare chiaro che Emmert o perpetrò egli stesso la frode, o non fu capace di scoprire l’impostura per i suoi metodi inadeguati.
Figura 3. La pietra di Bat Creek è uno dei numerosi oggetti antichi trovati in Nord America con iscrizioni in scritture del Vecchio Mondo. Tutti quegli oggetti sono stati smascherati come fraudolenti.
Le pietre sacre di Newark
Gli oggetti cui è stato dedicato più tempo nel documentario sono le cosiddette “pietre sacre” di Newark . Nei fatti, il narratore riferisce la controversia che circonda l’interpretazione di quegli oggetti come un caso da studiare che "dimostra la divisione tra alcuni diffusionisti e la maggior parte degli archeologi ufficiali". Se i produttori del documentario credono sinceramente a tale assunto, è difficile capire pzexhé presentino soltanto il lato diffusionista dell’argomento. Ciò che lascia particolarmente perplessi, di questa presentazione con una sola faccia, è che il solo scienziato intervistato (uno degli autori di questo articolo) ha ampiamente scritto sulle “Sacre Pietre” di Newark e avrebbe potuto rappresentare il punto di vista "maggioritario" (Lepper 1999; Lepper and Gill 2000). Si noti che l’uso del narratore di qualificare in questa fase gli "archeologi maggiormente nella corrente" fornisce all’ascoltatore l’errata impressione che ci possa essere qualche "archeologo della corrente maggioritaria", oltre a quelli citati, che potrebbe accettare l’autenticità delle “Sacre Pietre” di Newark. Noi non conosciamo nessuno studioso serio che si sia pronunciato a favore di queste egregie truffe, benché esse rivestano un qualche interesse storico.
Figura 4. Lunga circa 17 cm e fatta d'arenaria nera, la Pietra del Decalogo è così chiamata perché reca inscritti i Dieci Comandamenti in una forma apparentemente antica di ebreo. Fu scoperta nel 1860 durante lo scavo dei resti del maggior tumulo di pietra del Nord America. (Johnson-Humrickhouse Museum)
Le “Sacre Pietre” di Newark consistono di cinque pezzi distinti, almeno due dei quali sono riconosciuti fraudolenti anche da molti diffusionisti (Lepper 1991). Il documentario punta sul second degli oggetti, insieme entrambe le “Sacre Pietre” rimaste, che sono mostrate in varie video clips.
David Wyrick, un supervisore della Licking County, Ohio, e archeologo dilettante, fece la sua prima sensazionale scoperta, la cosiddetta “Pietra chiave”, in uno scavo superficiale dei monumentali terrapieni di Newark. Dopo soli cinque mesi, in un sito diverso, qualche miglio a sud di Newark, egli trovò la "Pietra del Decalogo" (figura 4), ancor più spettacolare e apparentemente prova definitiva delle sue credenze che gli antichi Israeliti avessero costruito gli antichi tumuli. (Lepper and Gill 2000).
Il tumulo Reservoir Stone Mound, conosciuto anche come Jacksontown Stone Mound, era la più grande struttura aborigena di pietra del Nord America, a nord del Messico. Era alta dodici metri e aveva un diametro di 50 m. Descritto la prima volta nel 1822 in una petizione per preservare il magnifico edificio, fu tuttavia ampiamente distrutto tra il 1831 e il 1832 e le pietre furono usate per costruire una serie di dighe per la riserva d’acqua sulla sommità di Licking, per il canale tra i fiumi Ohio ed Erie. Le stime non concordano, ma si dice che fossero asportati dal monumento un numero tra 10000 e 15000 vagoni carichi di pietre. Dopo aver rimosso la maggior parte della copertura litica, apparve una porzione dei tumuli di terra sottostanti, di 3-4 metri d’altezza.
Nel video, l’editore della rivista Ancient American, Wayne May, narra la storia della scoperta della Pietra del Decalogo, compiuta da Wyrick:
Trovarono una grande struttura di terra al centro, circondata da dodici piccoli sepolcri. David Wyrick andò dritto verso quello centrale con altri nove gentiluomini, cominciarono a scavare quel tumulo, e scoprirono un baule di legno di quercia. L’aprirono: conteneva un grande scheletro di un uomo, e una scatola più piccola, di non più di trenta centimetri, sigillata. Wyrick e gli altri, tutti insieme, aprirono quel contenitore e c’era un oggetto insolito, una pietra nera.
Questo racconto stringato della scoperta è denso di errori. Alcuni possono essere banali, ma è importante citarli perché dimostrano un contesto di trascuratezza riguardo ai fatti, il che è deprimente, un fatto tipico della letteratura diffusionista.
1. La Pietra del Decalogo non fu trovata nel tumulo centrale ma in uno dei dieci o dodici tumuli che formavano un anello alla base del tumulo di pietra. Non fu mai segnato il numero esatto di quei piccoli tumuli, probabilmente perché le pietre non furono mai interamente rimosse e qualcosa rimaneva sepolto e nascosto tra i resti del terrapieno. Il riferimento di May al numero di "dodici" dà l’impressione non giustificata di un computo esatto. Il fatto che May fissi con tale precisione il numero dodici può avere a che fare col significato mistico del numero stesso nella tradizione Giudeo-Cristiana (dodici tribù d’Israelz, dodici discepoli, ecc.).
2. Wyrick non intraprese la sua esplorazione con altre nove persone, ma con cinque.
Le fonti permettono d’indentificare almeno quattro di loro: Jacob Wyrick, John Nicol, John Haynes, e John Larett. La presenza di Nicol è significativa, perché fu direttamente implicato nell’eclatante truffa di due delle successive “Sacre Pietre” (Lepper 1991).
3. Il gruppo di Wyrick non scoprì il "cofano" di legno. Il "cofano", descritto in principio come una specie di "tinozza", fu scoperto nel 1853 da William Parr (Wyrick 1860). Parr tagliò un pezzo di legno per conservarlo, ma lasciò il resto nel foro per ricoprirlo. Wyrick e un gruppo di uomini ritornarono sul posto nell’agosto del 1860 per riscavare il tumulo e recuperare il "sarcofago" di legno. Lo scavo che giunse a recuperare la Pietra del Decalogo era la seconda spedizione di Wyrick in quel sito e almento la terza volta che il tumulo veniva scavato.
4. Né Wyrick né Parr recuperarono lo scheletro di un "grande uomo" e la Pietra del Decalogo non fu trovata nel cofano, ma almeno una decina di centimetri sotto di esso. Wyrick (1860) riferì che Parr aveva trovato ossa umane, ma si trattava soltanto di "pezzi di teschio", alcuni denti, e un po’ di capelli. Non sarebbero stati abbastanza per identificare né il sesso, né la taglia della persona cui appartenevano i resti, e le ossa non sono conservate in nessuna collezione museale in cui possano essere nuovamente studiate con moderni metodi di medicina legale. I soli oggetti associati con i resti umani erano dieci braccialetti di rame. La Pietra del Decalogo fu trovata ben al di sotto del fondo originale della piattaforma sepolcrale di legno.
May quindi racconta gli sforzi di Wyrick per decifrare la Pietra del Decalogo:
La portarono ad uno studioso che si accorse che doveva trattarsi di una specie di ebreo. La portarono a un rabbino che viveva nella zona ed egli confermò di poterla leggere, che si trattava di una stesura completa dei Dieci Comandamenti. Lo chiamarono “ebraico maiuscolo”. Allora i denigratori cominciarono a tormentare Wyrick. Egli fu accusato di aver nascosto in qualche modo la pietra, per poterla tirar fuori poi davanti a quei nove uomini.
Non fu che intorno al 1900 che in Israele si scoprì lo stesso tipo di scrittura. Gli esperti chiamarono “ebraico monumentale” lo stile di quei caratteri. Ciò accadde parecchio tempo dopo Wyrick!
In altre parole, May pretende che la versione dei caratteri ebraici trovati nella Pietra del Decalogo non possa essere stata una copia fraudolenta del 1860, perché tale forma di scrittura non fu conosciuta sino a diversi anni dopo la scoperta della pietra. È tutto un nonsense. Di fatto, Wyrick portò la Pietra del Decalogo direttamente al locale Ministro Episcopale, John McCarty, che pubblicò una traduzione comprensibile e annotata dell’iscrizione, dopo una settimana dalla sua scoperta. (McCarty 1860).
C’erano rabbino che avrebbero potuto, tuttavia, leggere l’iscrizione. Abraham Geiger, un rabbino tedesco degno di grande rispetto e studente di ebraico, concluse il 27 luglio 1860, sul New York Times, che l’iscrizione della Pietra del Decalogo era "l’opera confusa d’uno scalpellino illetterato, e la stranezza di alcune lettere, così come i diversi errori e trasposizioni, ne dimostrano l’errore. Le lettere non sono antiche. Non è una reliquia di un’antichità preziosa". (cit. in Alrutz 1980, 41).
La dichiarazione di Geiger è stata confermata ed elaborata dal nostro collega Jeff Gill, che ha notato specifici errori nell’iscrizione, possibili solo se qualcuno avesse elaborato un carattere ebraico convenzionale da stampa, del sec. XIX, e convertito i caratteri uno per uno nelle immagini falso-antiche dell’alfabeto del Decalogo. Così facendo si otterrebbe un errore di tipo ricorrente, che confermerebbe l’origine moderna dell’iscrizione. (Lepper e Gill 2000, 20). Frank Moore Cross, professore di lingue medio-orientali alla Harvard University e una delle maggiori autorità contemporanee per l’antico ebraico, appoggia pienamente le conclusioni di Gill e scrive che appare chiaro che "dietro le elaborazioni dell’iscrizione della Pietra del Decalogo stanno le forme dei moderni caratteri ebraici" (Cross 1991). Cross ha espresso l’opinione che la Pietra del Decalogo sia una falsificazione "grottesca" che non si può prendere sul serio.
La decisa negazione di May dell’idea che Wyrick potesse, in modo fraudolento, aver sepolto la Pietra del Decalogo proprio sotto gli occhi dei "nove" testimoni, non ha alcun sostegno, poiché il tumulo in questione era già stato scavato almeno in due precedenti occasioni. Anzi, il piano di Wyrick di continuare la propria ricerca nel tumulo era noto ad almeno cinque altre persone, ciascuna delle quali avrebbe avuto un’ampia opportunità di nascondere l’oggetto nello scavo prima del giorno programmato per la seconda spedizione. Il successivo coinvolgimento di Nicol in una truffa simile, che fu provata, accresce notevolmente i sospetti in questa direzione.
La pretesa di May, riguardante l’importanza dell’ebraico “maiuscolo” o monumentale, è speciosa e disinformata. “Ebraico maiuscolo” è semplicemente come i paleografi e gli epigrafisti chiamano l’ortografia dell’ebraico classico, dall’era del Secondo Tempio ad oggi, e non esiste una corrispondenza coerente tra nessuna epigrafe antica e l’alfabeto della Pietra del Decalogo.
Infine, ignorando il contesto storico in cui le “Pietre Sacre” di Newark apparvero, May ed altri diffusionisti hanno perso l’opportunità di comprendere la vera natura dei falsi. Le “Pietre Sacre di Newark "Holy Stones" rappresentavano un tentativo di legare la preistoria del Nuovo Mondo con la storia biblica del Vecchio Mondo, e di offrire un fondamento la pericolosa dottrina della poligenesi, che cercava di fornire una giustificazione scientifica sia alla schiavitù del popolo africano sia alla deportazione forzata dei Nativi Americani dalle loro patrie. Ironicamente, tali idee avrebbero ricevuto un certo sostegno favorevole proprio dal tema centrale del documentario “The Lost Civilizations of North America”.
Come poté andare ‘perduta’ l’importante evidenza di una civiltà perduta?
Il documentario “The Lost Civilizations of North America” propone l’insostenibile proposizione che l’evidenza epigrafica offra un sostegno alle pretese dei diffusionisti e non sia stata semplicemente smontata da un accurato esame compiuto da studiosi attenti, ma sia stata realmente accettabile e deliberatamente soppressa dagli storici ufficiali, perché "l’idea che gli antichi abitanti conoscessero e usassero simboli ebraici medio-orientali avrebbe scardinato l’opinione che i Nativi Americani fossero selvaggi isolati".
La pretesa che gli studiosi abbiano messo da parte o persino distrutto i dati, per sostenere interpretazioni razziste del passato dell’America, è espresso chiaramente da Wayne May nel documentario. Il suo argomento si appoggia sull’uso di citazioni scelte in modo selettivo da Wesley Powell, che fu direttore del Bureau of American Ethnology presso la Smithsonian Institution e dell’U.S. Geological Survey: "Da questo, deriverebbe che sia illegittimo usare a fini storici qualunque materiale pittografico di data anteriore alla scoperta del continente da parte di Colombo". Tale citazione appare sullo schermo così, completata con un punto, come se fosse il pensiero completo espresso da Powell. Da ciò deriva facilmente l’affermazione che gli scienziati conoscessero l’esistenza d’una scrittura dei Nativi Americani, e che abbiano cospirato per sopprimere la verità su tale scrittura e sulla sua connessione con alfabeti del Vecchio Mondo, proibendo l’uso scientifico di quei “pittogrammi”. Ciò è naturalmente e palesemente falso, e quando si legga quell’affermazione nel suo vero contesto appare chiaro che non aveva il significato attribuitole da Powell. La frase citata non termina lì, come è presentata nel documentario. Invece un punto e virgola separa la prima pare della frase dal resto del pensiero di Powell, che ripetiamo qui di seguito in modo completo, evidenziando in corsivo la parte omessa.
“Da questo, deriverebbe che sia illegittimo usare a fini storici qualunque materiale pittografico di data anteriore alla scoperta del continente da parte di Colombo; ma ha un uso legittimo di profondo interesse, perché quei pittogrammi mostrano l’inizio della lingua scritta e l’inizio dell’arte pittorica, benché in modo indifferenziato; e se gli studiosi dell’America sapranno raccogliere e studiare l’ampio corpo di materiale sparso ovunque, per valli e mondi, da tale mole di materiale si potrà scrivere uno dei capitoli più interessanti della storia primitiva del genere umano". (Powell 1881, 75)
In altre parole, mentre Powell sentiva come "illegittimo" interpretare i pittogrammi (figura 5) direttamente, come una forma di storia scritta, sentiva tuttavia che essi avevano un’enorme importanza e dovevano essere raccolti e analizzati precisamente, perché essi rappresentano il principio d’una lingua scritta (esattamente ciò che il documentario pretende che Powell ed altri tentassero di nascondere) e una storia potesse essere ricostruita da coloro che li avessero studiati. Powell non stava cercando di sopprimere un’evidenza archeologica, ma cercava semplicemente di subordinare la teoria alla raccolta dei dati obiettivi.
Figura 5. Pareti con petroglifi, come questo spettacolare esempio chiamato Newspaper Rock (in Utah), sono splendide opere d’arte. Questi petroglifi e pittogrammi non possono ancora essere interpretati come una lingua formalmente scritta, tuttavia John Wesley Powell ne riconosceva il significato per le storie che essi potevano narrare, delle vite dei Nativi Americani. (K. Feder)
Chiaramente, Powell ha sbagliato nel presentare un po’ di cose. Per esempio, mentre osserva correttamente che i "pittogrammi" prodotti dalle società della Mesoamerica erano più "convenzionali" di quelli che si trovano in Nord America, è incorretto nel trascurare l’osservazione che essi non fossero un vero sistema di scrittura. Tale errore, tuttavia, non garantisce la conseguenza dedotta nel documentario, che il suo scopo fosse quello di sopprimere ogni evidenza che mostrasse che i nativi del Nord America fossero capaci di sviluppare la civiltà. È vero esattamente l’opposto. È un dato di fatto che Powell s’impegnasse a sfatare il mito che i costruttori di tumuli fossero stati un popolo diverso dai Nativi Americani, una conclusione che egli baò non su una teoria elaborata a tavolino, ma su una quantità di dati derivati da estesi studi sul campo dell’etnologia e dell’archeologia americana. È incredibile che qualcuno possa suggerire, come chiaramente fanno i produttori di Lost Civilizations, che Powell "derubasse" i Nativi Americani della loro storia.
L’intento di Powell era di unire l’archeologia e l’etnologia dell’America nello studio dei tumuli, non di sopprimerne l’evidenza.
Perché gli archeologi sono scettici riguardo alla possibilità che visitatori del Vecchio Mondo abbiano raggiunto il Nuovo Mondo?
Questo ci spinge su un argomento toccato solo brevemente nel documentario: l’insediamento vikingo nel Nord America verso l’anno 1000 d.C. Il documentario intende affermare che, poiché si può dimostrare che i Vikinghi erano qui mille anni fa, è anche possibile che i medio-orientali fossero nel Nuovo Mondo duemila anni fa.
È vero che, prima degli anni Sessanta, gli archeologi erano generalmente scettici sulle affermazioni che un vikingo avesse scoperto il Nuovo Mondo prima di Colombo e vi si fosse stabilito, soprattutto perché tali dichiarazioni non si basavano su resti trovati nel Nord America e appartenenti a una presenza vikinga pre-colombiana, ma all’interpretazione di specifici documenti storici, consistenti in due saghe nordiche (la Saga di Eric il Rosso e la Saga del Groenlandese), le quali furono entrambe scritte per intero su carta due secoli dopo di quando gli eventi che narrati si presumeva avessero avuto luogo.
Gli archeologi, attenti all’evidenza materiale, tendono a sottoscrivere la definizione della storia scritta fatta dal saggista Ambrose Bierce: "Un racconto per lo più falso, di fatti per lo più poco importanti, che sono stati compiuti da condottieri, per lo più canaglie, e soldati, per lo più folli" (Bierce [1911] 2003).
Essenzialmente, i resti materiali – gli oggetti fatti e usati dalle persone e poi perduti, o gettati via – rappresentano la vera ricchezza per l’analisi archeologica. Perciò, mentre quelle due saghe reclamavano che le terre ad ovest dell’insediamento vikingo in Groenlandia fossero state scoperte e abitate per breve tempo, la maggior parte della comunità archeologica era scettica nel prenderle sul serio, senza una conferma evidente di prove materiali.
Tutto ciò cambiò quando, nei primi anni Sessanta, gli archeologi trovarono a Terranova oggetti e addirittura strutture che erano fuor d’ogni dubbio di origini vikinghe, nel sito di L'anse aux Meadows. Oggetti come una spilla di bronzo con la testa ad anello, una spirale affusolata di saponaria, chiodi di ferro di imbarcazioni e i resti di case di torba furono scavati tutti in un contesto chiaro, come resti di un antico insediamento (Ingstad e Ingstad 2000). Tali resti materiali non somigliavano a nulla di quanto era stato trovato nei siti dei nativi, ma corrispondeva appieno e nei dettagli ad oggetti noti dei sec. X e XI trovati nei siti vikinghi in Groenlandia, in Islanda e in Scandinavia. Le datazioni ottenute col radiocarbonio provavano che il villaggio di Terranova era stato occupato prima del 1000 d.C., più o meno contemporaneamente agli eventi narrati nelle Saghe. Poi le ricerche nel Canada sud-orientale hanno rivelato altre evidenze materiali di una presenza vikinga, risalente a mille anni fa. (Sutherland 2000). Come risultato, ora gli archeologi accettano pienamente il fatto che i vikinghi avessero raggiunto il Nuovo Mondo, l’avessero esplorato e, in alcuni casi, vi si fossero installati, cinque secoli prima di Colombo.
L’esempio dei Vikinghi è una lezione istruttiva per trattare le ipotesi sottintese fatte dal documentario The Lost Civilizations. Purtroppo però è una lezione perduta. Se viaggiatori fossero arrivati dal Medio Oriente al Nord America duemila anni fa, ci si aspetterebbe che l’evidenza materiale della loro presenza fosse abbondante. Se un pugno di esploratori e coloni vikinghi ha lasciato dietro di sé elementi riconoscibili della loro cultura materiale, sparsi per il Canada, certamente un gran contingente di ebrei che fosse andato in Ohio e avesse costruito letteralmente migliaia di tumuli avrebbe, come i vikinghi canadesi, lasciato villaggi con resti di oggetti materiali, significativi della loro cultura e facilmente distinguibili da quelli dei popoli nativi che erano già lì. La loro cultura materiale sarebbe stata virtualmente ovunque gli archeologi, o chiunque altro, potessero scavare. Avrebbero lasciato certamente ben più d'’na manciata di tavolette scritte. Ma non si trova tale evidenza della presenza di ebrei, o di altri popoli del Vecchio Mondo, nell’Ohio pre-colombiano. In tal caso confidiamo di rivoltare il vecchio cliché a testa in giù, e l’assenza di evidenza si trasforma in evidenza di assenza.
Infine, vorremmo aggiungere un’ultima considerazione. Non è sorprendente che quando gli individui, nel sec. XIX, per qualunque ragione, volevano convincere i loro contemporanei che i tumuli fossero stati costruiti da medio-orientali, il modo più ovvio e rapido per ottenere tale risultato fosse per loro quello di costruire dei falsi, come le “Sacre Pietre” di Newark, con iscrizioni su di essi. Sarebbe stato molto più difficile, anzi virtualmente impossibile, riempire interi siti con oggetti di scarto e sepolcreti, che riflettessero la morfologia, le tipologie, gli scheletri e le pratiche di sepoltura in modo appropriato per attribuirli ad ebrei e farli datare al primo secolo. Non siamo troppo severi nei confronti dei fabbricanti di quelle frodi, di quei falsi, essi fecero il meglio che potevano e riescono ancora a ingannare la gente di oggi.
Un’ulteriore categoria di evidenze discusse in Lost Civilizations sarà esaminata nel terzo articolo di questa serie: dati genetici usati per tracciare le origini dei Nativi Americani in generale e dei costruttori di tumuli in particolare.
Citazioni e riferimenti:
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Bierce, A. [1911] 2003. The Devil's Dictionary. New York: Bloomsbury.
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Halsey, John H. 2004. Forgeries, fakes and frauds. Michigan History (May/June): 20-27.
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Wyrick, David. 1860. The recent mound exhumations. Saturday Evening Post (September 8): 6.
Disclaimer
Siamo ben consapevoli che la pretesa che sta sotto il documentario Lost Civilizations, ossia che i costruttori di tumuli del Midwest americano fossero migranti dal Medio Oriente di 2000 anni fa, può essere influenzata dalla dottrina religiosa. Tuttavia una delle nostre posizioni in questo articolo è che qualunque cosa ispiri tale pretesa non è tanto importante quanto il fatto che essa è decisamente errata. Detto questo, lasceremo ad altri di stabilire il ruolo eventualmente giocato dalla religione per influenzare Lost Civilizations e ci limitiamo a focalizzare l’evidenza scientifica relativa a tali fatti.
Gli autori
Bradley T. Lepper is the curator of archaeology for the Ohio Historical Society in Columbus, Ohio.
Kenneth L. Feder is professor of anthropology at Central Connecticut State University. He is a fellow of the Committee for Skeptical Inquiry and a SKEPTICAL INQUIRER consulting editor.
Terry A. Barnhart is professor of history at Eastern Illinois University in Charleston, Illinois.
Deborah A. Bolnick is assistant professor of anthropology at the University of Texas at Austin.
Fonte: CSICOP, Volume 35.6, Nov./Dic. 2011