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ATHENA, NEITH, TIN HINAN
La Grande Dea del Mediterraneo
Nella mitologia greca, Athena (in dorico Asána), figlia di Zeus, era la dea della sapienza, proteggeva la tessitura e le arti e gli aspetti più nobili della guerra (mentre la violenza e la crudeltà rientravano nel dominio di Ares).
La sapienza rappresentata da Athena comprendeva sia le conoscenze tecniche usate nella tessitura e nell’arte di lavorare i metalli, sia l’astuzia (Metis). I suoi simboli sacri erano la civetta e l’ulivo.
Athena ha sempre con sé la sua civetta, indossa una corazza di pelle di capra chiamata Egida, donatale dal padre Zeus, (1) ed è spesso accompagnata dalla dea della vittoria Nike. Quasi sempre è raffigurata con l’elmo e con uno scudo, cui è appesa la testa della Gorgone Medusa, dono votivo di Perseo. Athena è una dea guerriera ed armata. Nella mitologia greca appare come protettrice di eroi come Eracle, Giasone ed Odisseo. Non ebbe mai alcun marito od amante, e per questo era conosciuta come Athena Parthenos (la vergine Athena), da cui il nome del più famoso tempio a lei dedicato, il Partenone, sull’Acropoli d’Atene. Il suo rapporto con Atene era davvero speciale, come dimostra chiaramente la somiglianza tra il suo nome e quello della città. (2)
Il culto della dea Athena nell’area egea risale probabilmente ad epoche preistoriche. (3) Si sono trovate prove del fatto che nell’antichità Athena fosse vista essa stessa come una civetta, o comunque si trattasse d’una Dea–uccello: nel terzo libro dell’Odissea assume la forma di un’aquila di mare. La sua egida decorata potrebbe rappresentare ciò che rimane delle ali, con cui era anticamente raffigurata. (4) Il nome Athena può essere una parola composta d’origine lidia, (5) derivata in parte dal tirreno ati, che significa madre, ed in parte dal nome della dea turrita Hannahannah che spesso è abbreviato in Ana. Sembrerebbe fare la sua comparsa in una singola iscrizione in lingua micenea, in scrittura lineare B, in un testo delle “Tavolette della stanza del carro” rinvenute a Crosso: “A–ta–na–po–ti–ni–ja –Athana potniya”. (6) Sebbene questa frase venga spesso tradotta come “Padrona Athena”, letteralmente significa la potnia di At(h)ana, “La dama d’Atene”. (7) Non è possibile stabilire con certezza se vi fosse già una connessione con la città d’Atene. (8) Si è rinvenuta anche la forma “A–ta–no–dju–wa–ja/Athana diwya”, la cui parte finale è la scomposizione in sillabe in Lineare B di quella che in greco è conosciuta come “Diwia” (in miceneo “di–u–ja” o “di–wi–ja”) – ovvero divina Athena, attributo della dea della tessitura e delle arti. Nel dialogo Cratilo, Platone fornisce un’etimologia del nome di Athena basata sul punto di vista degli antichi Ateniesi, sostenendo che derivi da A–theo–noa o E–theo–noa, che significa “la mente di Dio”:
“Pare che gli antichi riguardo ad Athena la pensassero allo stesso modo di come oggi fanno i bravi critici di Omero. Infatti la maggior parte di loro, studiando il poeta, sostiene che in Athena abbia voluto personificare il “nous” e la “dianoia”, ovvero la mente ed il pensiero, e similmente sembra aver ragionato chi le assegnò i nomi; addirittura, appellandola con ancor maggiore solennità “theou nesis” (mente del dio) dice che è la “theonoa”, ovvero la “mente divina”, servendosi della lettera “alfa” al posto della lettera “eta” come fanno gli stranieri, ed eliminando “iota” e “sigma”. Era assai poco distante dal chiamarla “Ethonoe”, dato che è colei che come indole ha il pensiero “en thoi ethei noesis”. Ma alla fine o lui stesso od altri, per renderne il nome più bello, la chiamarono Athena”. (Cratilo, 407b).
Platone ed Erodoto identificano con Athena la dea egizia di nome Neith, (9) protettrice della città di Sais.
Athena nell’arte classica
Nell’iconografia classica Athena è ritratta in piedi con l’armatura e l’elmo, tenuto alto sulla fronte; porta una lancia ed uno scudo, sul quale è fissata la testa della Gorgone Medusa. Proprio in questa posizione fu scolpita da Fidia nella celebre statua crisoelefantina, (10) alta undici metri ed ora perduta, l’Athena Parthenos custodita nella cella del Partenone. Spesso ha sulla spalla la civetta, simbolo di saggezza. A partire dal sec. V a.C. appare una sostanziale uniformità di vedute tra gli artisti sull’aspetto della dea. Un naso importante che sembra essere la naturale continuazione della fronte, occhi profondi, labbra piene, una bocca stretta, appena più larga del naso, il collo allungato, ne tratteggiano una bellezza serena ma un po’ distaccata.
La nascita d’Athena
Tra gli dèi dell’Olimpo Athena è ritratta come la figlia prediletta di Zeus, nata già adulta ed armata dalla sua fronte. Varie sono le versioni riguardo alla sua nascita. La più comune dice che Zeus si coricò con Metide, dea della prudenza e della saggezza, ma subito dopo ebbe paura delle conseguenze che ne sarebbero derivate, perché una profezia diceva che i figli di Metide sarebbero stati più potenti del padre. Per impedire che ciò si verificasse, Zeus indusse Metide a trasformarsi in una mosca e la inghiottì, ma era ormai troppo tardi, perché la dea aveva infatti già concepito. Prometeo (oppure, a seconda delle versioni, Efesto, Hermes o Palemone) aprì la testa di Zeus con un’ascia bipenne ed Athena ne balzò fuori già adulta ed armata. Alcuni frammenti attribuiti alla storia dal semi–leggendario Sanchuniathon, che si dice scritta prima della guerra di Troia, suggeriscono che Athena sia invece la figlia di Chronos, un leggendario re di Biblos, che si dice avesse viaggiato per il “mondo inabitabile” ed avesse lasciato l’Attica in eredità ad Athena.
Alcune leggende relative ad Athena
Erittonio
Apollodoro narra che Efesto tentò di stuprare Athena, ma non riuscì nell’intento. Il suo seme si sparse al suolo e dalla Terra nacque Erittonio, il mitico re d’Atene che abbiamo già avuto occasione di citare. Athena decise comunque d’allevare il bambino, come madre adottiva. Un’altra versione dice che il seme d’Efesto cadde sulla gamba della dea, che se la pulì con uno straccetto di lana che gettò poi a terra. Erittonio sarebbe nato dalla terra e dalla lana. Un’altra leggenda narra che Efesto avesse voluto sposare Athena ma che la dea scomparve all’improvviso dal talamo nuziale, cosicché lo sperma d’Efesto cadde a terra. Il bambino aveva la parte inferiore del corpo a forma di serpente. Atena lo affidò alle figlie di Cecrope, di nome Erse, Pandroso e Agraulo. Diede loro il bimbo chiuso in una cesta e avvisò le tre sorelle di non aprirla mai. Agraulo, curiosa, aprì ugualmente la cesta, e la vista dell’aspetto mostruoso d’Erittonio fece impazzire le tre sorelle, che si uccisero, gettandosi giù dall’Acropoli. Una diversa versione della leggenda dice che, mentre Athena era andata a prendere una montagna per usarla per costruire l’Acropoli, due delle sorelle aprirono la cesta. Un corvo vide la scena e volò a riferirlo alla dea, che s’infuriò e lasciò cadere la montagna, dando origine al Monte Licabetto. (11) Erse e Pandroso impazzirono per la paura e si uccisero, gettandosi da una scogliera. Neppure il corvo fu risparmiato dall’ira d’Athena che da allora – come si narra – fece diventare nere le sue penne. Erittonio diventò re d’Atene e introdusse molti cambiamenti positivi nella cultura ateniese. Durante il suo regno Athena fu frequentemente al suo fianco per proteggerlo.
Agraulo
In un’altra versione del mito d’Agraulo, narrata nelle Metamorfosi d’Ovidio, Hermes s’innamora di Erse. Quando le tre sorelle si recano al tempio per fare un’offerta sacrificale in onore d’Athena, Hermes s’avvicina ad Agraulo e le chiede il suo aiuto per sedurre Erse. Questa in cambio chiede ad Hermes il denaro dei sacrifici ad Athena. La Dea, per punire la sua avidità, ordina all’Invidia di possedere Agraulo, la quale rimane pietrificata. (12)
Athena era in competizione con Poseidone per diventare la divinità protettrice della città che, all’epoca, ancora non aveva un nome. Stabilirono che ciascuno dei due avrebbe fatto un dono agli abitanti, i quali avrebbero scelto il migliore, decidendo così la disputa. Poseidone piantò al suolo il suo tridente e dal foro scaturì una sorgente, ma l’acqua era salmastra e non molto buona da bere. Athena invece offrì il primo albero d’ulivo. Gli Ateniesi scelsero Athena come patrona della città, perché l’ulivo avrebbe procurato loro legname, olio e cibo. Si pensa che questa leggenda sia sorta nel ricordo di contrasti sorti nel periodo miceneo, tra gli abitanti originari della città ed i nuovi immigrati.
Una diversa versione della leggenda dice che Poseidone offrì in dono il primo cavallo, anziché la sorgente, ma gli Ateniesi scelsero comunque il dono d’Athena.
Neith
Nella mitologia egizia Neith (chiamata anche Nit, Nut, Net e Neit) era la patrona di Sais, nel Delta occidentale.
“La sua origine non è locale e la qualifica “Tehenut” equivale a “la Libica”. (13)
Osserviamo in questa citazione il fatto che Tehenut equivale con grande precisione a Tjehenu, il nome con cui in Egitto era conosciuto il popolo libico degli abitatori dell’Atlantide platonica.
In origine Neith fu dea della caccia e della guerra ed ebbe come simbolo, come la città stessa di Sais, due frecce incrociate sopra uno scudo. Nella forma antica, come divinità della guerra, era considerata artefice delle armi dei guerrieri e guardiana dei morti in battaglia. Il suo simbolo poteva anche essere interpretato come un telaio, cosicché Neith divenne la dea della tessitura, da cui derivò il nome di tessitrice. In questo ruolo di dea delle arti domestiche era protettrice delle donne e guardiana del matrimonio. Le donne della famiglia reale aggiunsero spesso il nome teoforo al loro in suo onore. La dea della guerra fu anche associata alla morte. Si pensava che Neith avvolgesse i corpi dei morti con le bende dell’imbalsamazione. Così divenne protettrice di uno dei quattro figli di Horus, Duamutef, la deificazione del canopo che conteneva lo stomaco. Poiché il suo nome poteva anche essere interpretato con il significato di “acqua”, Neith fu considerata la personificazione delle acque primordiali della creazione, nella Ogdoade, e quindi madre di Ra. Come dea delle acque, fu anche considerata madre di Sobek e raffigurata mentre allatta un piccolo coccodrillo. In tempi più recenti, la dea della guerra e della morte fu identificata con Nefti, moglie di Seth.
Nell’iconografia, Neith appare come una donna con una spola di telaio sulla testa, con in mano arco e frecce. Viene anche rappresentata come una donna con la testa di leonessa, di serpente o di mucca. Una gran festa, la Festa delle Lampade, si teneva ogni anno in suo onore. Dal racconto d’Erodoto sappiamo che i devoti della dea, durante la celebrazione notturna, accendevano centinaia di luci all’aria aperta.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che Neith possa corrispondere alla dea punica Tanit (Ta–Nit). Platone nel Timeo afferma che essa fosse la dea greca Athena con un altro nome, ma storicamente le due divinità non condividono le stesse origini.
L’Abisso, la “Grande Profondità”, in Egitto era personificato dalla dea Neith, precedente tutti gli dèi. Come dice Deveria, “l’unico Dio senza forma e sesso, che si autogenerò senza fecondazione, ed è adorato sotto forma della Vergine Madre”. Essa è la dea dalla testa d’avvoltoio che si trova nei più antichi tempi di Abidos e che appartiene, secondo Mariette Bey, alla prima Dinastia che la fa risalire, anche secondo gli Orientalisti che ne abbreviano il tempo, a circa 7000 anni fa. Bonwick dice: “Neith o Nut non è nient’altro che la Grande Madre, la Vergine Immacolata o il Dio femminile dal quale derivano tutte le cose. Neith è il “Padre–Madre” delle Stanze della Dottrina Segreta, lo Swabhavat del Buddhismo del Nord, proprio la Madre Immacolata, il prototipo della più recente Vergine”; perciò, come dice Sharpe, “la Festa della Candelora, in onore della Dea Neith, è segnata nei nostri calendari come il giorno della Candelora o della Purificazione della Vergine Maria”; e Beauregard ci parla dell’Immacolata Concezione della Vergine che “d’ora innanzi può vantarsi, come la Minerva greca e la misteriosa Neith, d’essere nata da sé e di aver dato nascita a Dio”. Neith esisteva 7000 anni fa nella concezione degli Iniziati egiziani, che cercavano di volgarizzare una filosofia troppo astratta per le masse. Neith è raffigurata in antiche pitture come una Madre che tiene fra le braccia un dio con la testa di ariete, “l’Agnello”. Un’antica stele dichiara che essa è “Neut, la luminosa, che ha generato gli dèi” – incluso il Sole, poiché Aditi è la madre di Marttanda, il Sole – un Aditya. Essa è Naus, la nave celeste; perciò la troviamo sulla prua dei vascelli egiziani, come Didone sulla prora delle navi dei marinai fenici. Bonwick cita il reverendo Sayce, che la spiega come un principio nel Bahu (Caos o confusione), “semplicemente il Caos della Genesi... e forse anche Mot, la sostanza primordiale che fu la madre di tutti gli dèi”. Sembra che il dotto professore pensasse a Nebuchadnezzar, giacche questi ha lasciato la seguente testimonianza in stile cuneiforme, “Io ho costruito un tempio alla Grande Dea, mia Madre”.
Neith, la signora dell’occidente
Neith era Colei che apriva i cammini, la Cacciatrice, Signora dell’Occidente, dea guerriera e protettrice. Il suo nome significa “Io vengo da me stessa”, ossia autoconcepita. Secondo la leggenda, Neith emerse dalle acque primordiali e seguì il corso del Nilo in direzione del mare, sino al Delta, dando forma alla città di Sais. Ella si era autogenerata, come “Madre Originale” era una divinità androgina, che inglobava tanto l’aspetto femminile come quello maschile. Creare materia per esistere e vivere è una delle nature primarie di questa Dea nel processo della Creazione.
La sua funzione più antica sembra fosse quella d’una Dea guerriera e cacciatrice, ma anche di Dea della Sapienza. Nel periodo pre–dinastico aveva dorma di scarabeo, posteriormente i suoi attributi furono l’arco e la freccia incrociati sopra lo scudo, che costituivano il suo emblema. Teneva anche una civetta nella mano destra ed una lancia nella sinistra. Anche per questo Erodoto l’associò ad Athena.
Il suo culto era molto antico, poiché due regine della Prima Dinastia portarono il suo nome. Ella usava la corona rossa del Basso Egitto e teneva in mano un arco e due frecce. L’avvoltoio era l’animale sacro di Neith e d’altre dee. Il segno geroglifico per “madre” era un avvoltoio, che mangia i cadaveri e dà loro nuova vita, simboleggiando il ciclo della perpetua trasmutazione morte–vita. Nei testi delle piramidi, fu identificata con Iside. A partire dall’Antico Regno, Neith proteggeva Osiride, Ra ed il faraone ed era identificata con l’ape. Simbolo regale e solare, l’ape era associata al raggio ed era nata dalle lacrime di Ra cadute sulla terra. Sul piano sociale, ella rappresentava il Maestro dell’Ordine e della prosperità e pure l’ardore guerriero o il coraggio. Il suo simbolismo stabilisce l’ordine e l’armonia, tanto per mezzo della saggezza come per mezzo delle armi (la lancia). Nel Nuovo Regno fu chiamata “Dea–Madre” perché avrebbe generato Ra, mentre si lavava nelle acque di Nun, e perciò assunse la posizione di Dea Primordiale ed era la “iniziatrice del nascere, pur non essendo nata”, acquisendo così gli attributi della dea Nut.
Tutte le antiche Dee partenogenetiche, create da se stesse senza l’aiuto del seme maschile, gradualmente si trasformarono in fidanzate, spose e figlie, come risposta al sistema patriarcale e patrilineare. Anche per la Dea Neith avvenne questa trasformazione.
A Sais, da dove proveniva, era la sposa di Sobek, mentre in testi dell’Antico Regno Antigo figurava sposata con Seth ed era madre di Sobek, col Titolo di “Allattatrice di Coccodrilli”. Altro centro del suo culto era Esna, ove era conosciuta come “Atterratrice”. Qui era sposa di Khnum e madre di Apofis.
Come “Dama dell’Occidente” era la protettrice dei morti e vegliava il defunto insieme ad Íside, Neftis e Selket. Nella famosa tomba di Tutankamon furono trovate le piccole statuette dorate di quattro dee: Aset (Iside), Nebt–Het (Nephtys), Serqet (Selket) e Nit (Neith). In questo contesto possiamo identificare Neith come protettrice dei morti, ed è menzionata nel “Libro dei Morti” come colei che assicura il passaggio del defunto all’altra vita. Anche i lini che avvolgevano la mummia erano tessuti da Neith. In tal modo, le mummie erano poste sotto la sua protezione. Neith è dunque una delle Dee tutelari della morte ed esercita un ruolo nella rinascita dell’anima.
In alcuni testi appare come una “Vacca Celestiale” (simile a Hathor), che sorge dal caos primordiale ed aiuta il nascere del Sole. Sotto tale forma, associata al tempo primario ed alla nuova creazione quotidiana, allevia le strade del Sole. Molti riferimenti alla rinascita del Sole nei vari punti del cielo, durante i cambiamenti stagionali, mostrano i diversi aspetti di Neith, che regna in forma di Dea celeste.
In un mito, Neith è invitata da altri dèi a giudicare nel conflitto tra Seth e Horus su chi dei due dovesse ereditare il trono d’Egitto, in funzione della propria saggezza. Qui è riconosciuta come la “Madre Anziana”. Ella suggerì che Horus diventasse re e che Seth dovesse ricevere due Dee semitiche come premio di consolazione, e così fu fatto.
Plutarco visitò il grande tempio di Neith a Sais, chiamato Sapi–meht, e vi lesse l’iscrizione: “Sono tutto ciò che è già esistito, che esiste e che esisterà. Nessun mortale, sino ad oggi, è stato capace d’alzare il velo che mi copre”. Parte di quel santuario era una scuola de medicina chiamata “La Casa della Vita”, curata dai sacerdoti di Neith, che erano medici, specialisti in ostetricia.
Neith era la divinità delle erbe, della magia, della cura, delle conoscenze mistiche, dei riti e della meditazione. Era la patrona delle arti domestiche, tessitura, caccia, medicina, guerra e armi. Era considerata anche la protettrice delle donne e del matrimonio.
Le egiziane conoscevano un mondo in cui la donna non era né rivale, né serva dell’uomo. Il segreto di vivere la loro pienezza come spose, madri, lavoratrici, o come iniziate ai misteri del tempio, senza rinunciare alla propria identità a favore dell’uomo, risiedeva nella forte presenza delle divinità femminili, che fornivano un modello chiaro di comportamento ad ogni donna.
Se tutti noi, esseri umani, siamo stati fatti a immagine e somiglianza d’un creatore, ma si ammette solo l’esistenza d’un dio maschio, a immagine di chi furono create le donne? Sappiamo che i bambini fanno dei padri il loro modello di comportamento. Se si vive in una cultura che accetta un dio maschio e nessuna dea, dove trovare il modello femminile?
Oggi le donne sono obbligate a svolgere ruoli mascolini e patriarcali, per essere accettate nel mondo degli uomini. Questo non deve implicare una rinuncia all’essere femminili. La stessa Madre Natura s’incarica di ricordare alle donne chi sono, quando danno alla luce una nuova vita, esperienza tanto profonda, ancorata nell’esistenza biofisica, che solo in casi molto rari può passare non percepita. In quel momento magico la donna può sperimentare se stessa come creatrice e come fonte di vita, con una profondità che fa divenire superficiali tutti gli altri atteggiamenti, equivocati dalla sua coscienza.
Simbolismo
I simboli e le immagini sacre delle Dee, i loro animali ed uccelli sacri, erano più veri dei successi quotidiani. Quei simboli davano accesso ad una visione cosmica vigorosa della Terra e all’adorazione della stessa vita. Jung diceva che quei simboli sono “frutti della vita anteriore, che fluiscono dall’inconscio”.
La Dea, in tutte le sue manifestazioni, è simbolo dell’unità di tutta la vita della Natura. Il suo potere s’incontra nelle acque, nelle pietre, nelle tombe e nelle fosse, negli animali e negli uccelli, nei serpenti e nei pesci, nelle colline, negli alberi e nei fiori. Ecco la percezione olistica della santità e del mistero di tutto ciò che esiste sulla Terra.
Dobbiamo pure tenere a mente che il simbolo naturale, pur senza che noi ne siamo coscienti, è identico alla realtà del mondo naturale che ci appare, poiché ogni oggetto della natura è al tempo stesso una realtà simbolica. La psiche non usa un oggetto della natura come simbolo, ma l’esperienza d’un oggetto è sempre un’esperienza simbolica. La montagna o l’albero, dentro di noi, non sono meno simbolici né meno reali dell’esperienza corporea. Ogni possibilità d’esperienza presuppone o un’attività spiritualmente formatrice, e quindi simbolica, o identica ad essa stessa. Per spiegarci meglio, tutto ciò che è spirituale ci appare dapprima non solo nella natura, ma come natura. Per tale ragione, l’immagine come simbolo naturale si riferisce sempre ad un oggetto della natura che era venerato come divino, fosse esso minerale, vegetale o animale, acqua o raggio, sole o luna, o altra cosa più astratta, come il cielo e la terra. Lo spirituale e simbolico è identico a tutto ciò che è dato nella natura.
Athena, regina berbera dell’antichità
In un’epoca molto lontana, esisteva un regno berbero chiamato “tritonide”, qualificativo che ricorda Tritone, una divinità africana che u greci identificarono con Poseidone, il dio del mare raffigurato in forme umane, con la coda di pesce e con l’attributo d’una conchiglia risonante.
Sappiamo anche che il tritone è un animale anfibio, simile alla Salamandra, che sembra vivesse in Berberia, lungo le sponde dei fiumi. Uno di quei fiumi ne ha perpetuato il nome. Esso scendeva dai monti Tassili (ancor oggi abitati da berberi tuareg) e si è disseccato con la desertificazione del Sahara, ma ne rimangono le tracce nel corso fossile dell’oued Igharghar, che correva presso le città di Ouargla e di Touggourt per versare il proprio letto negli shott, laghi disseccati.
Le città del regno dei tritonidi ospitavano una grande civiltà, pari e fors’anche superiore a quella dell’antico Egitto. Inoltre quel regno era governato dalle donne, che praticavano il matriarcato, ma non in forme di contrapposizione con gli uomini, come usavano le Amazzoni. Le tritoniane non sacrificavano i loro figli maschi, in nome d’un rito crudele, ma al contrario li proteggevano. La loro civiltà fu annientata proprio dalle Amazzoni, che non potevano sopportare l’esistenza di un’organizzazione matriarcale rivale. Con un esercito stimato a 70.000 guerriere, la regina Myrica invase il regno tritonide e l’occupò. Tutti gli uomini furono messi a morte e le donne e i bambini furono assoggettati ad un’umiliante schiavitù. La regina berbera sconfitta, Athena Tritonide, viveva presso il lago Tritone. Era donna di grande scienza e cultura ed il suo popolo la conosceva col nome di Nit, o Neith. Athena era riuscita anche a conquistare il regno degli Elleni e ne aveva incendiato la capitale. La città fu poi ricostruita dai berberi, che le diedero il nome d’Atene, proprio in onore della loro regina.
Nata in Africa del Nord, la sovrana indossava un’egida, preparata dai suoi sudditi, ossia una corazza di pelle di capra, che divenne il suo principale attributo di riconoscimento. Il nome “egida” è simile al termine berbero “Ighid” (capretto), che è usato ancor oggi per indicare l’animale, la cui pelle era usata per fare la corazza.
Il culto d’Athena era predominante nella piccola Sirte, la regione occidentale dell’attuale Libia, abitata dai popoli berberi. Due tribù locali celebravano ogni anno, sulle sponde del lago Tritone, un rito di litolobia (combattimento con le pietre). Le ragazze s’affrontavano con pietre e bastoni, in onore della dea–regina Athena. Quelle che fossero morte per le ferite riportate sarebbero state considerate false vergini. Dopo i combattimenti, ciascuno dei due schieramenti ornava la propria campionessa più bella con un elmo corinzio ed un’armatura, e la faceva montare su un carro per fare il giro del lago Tritone. Athena era la patrona della guerra, delle armi, della ragione, dello spirito che modera e controlla la forza bruta. Protettrice delle arti e delle lettere, Athena introdusse la coltivazione dell’ulivo e la fabbricazione dell’olio in tutto il Mediterraneo orientale. Le è attribuita anche l’invenzione del carro a due ruote (ampiamente raffigurato sulle montagne dei Tassili, nella regione dei berberi Garamanti). Athena è ricordata nella memoria dei Berberi col nome di Tin Hinan e secondo la tradizione fu sepolta ad Abalessa, sulle falde della montagna dell’Ahaggar, in compagnia della sua ancella Takama. La sua tomba ha continuato ad essere onorata dai pellegrinaggi dei tuareg, che le dedicano un culto perenne.
p> Tin Hinan, regina dei Tuareg
Tin Hinan, donna enigmatica, accompagnata dall’ancella Takama. I due nomi ricordano in modo straordinario quelli con cui gli antichi Egizi conoscevano i due popoli paleo–libici che abitavano le terre della Piccola Sirte, quelle pianure ove – secondo la nostra ipotesi – prosperava il regno dell’Atlantide, descritta da Platone, distrutta da una terribile catastrofe intorno all’anno 1200 a.C. Quei popoli si chiamavano Tjehenu e Temehu.
Tin Hinan (“Quella delle Tende”, in lingua tuareg) fu, secondo le tradizioni orali, la progenitrice dei Kel Ahaggar (Tuareg del Nord).
Numerosi racconti tradizionali esistono su di lei. Questa eroina leggendaria ha colpito la fantasia degli Europei e non mancano le opere letterarie (e, recentemente, cinematografiche) che dalla sua figura hanno preso spunto.
Le tradizioni orali su Tin Hinan sono state raccolte in diversi momenti e in diversi luoghi da vari autori, linguisti, etnologi e antropologi.
Su alcuni punti vi è una concordanza quasi completa tra tutte le fonti: Tin Hinan sarebbe stata una nobile donna musulmana, giunta nella regione dell’Ahaggar provenendo dal Tafilalet (una regione del sud del Marocco) in compagnia di un’ancella, Takama, in un’epoca in cui la regione era ancora abitata dagli Isebeten, il popolo che precedette su queste terre gli odierni Tuareg (forse gli ultimi Garamanti). Gli Isebeten erano ingenui e primitivi, praticavano l’idolatria e parlavano un dialetto berbero, considerato “rozzo” dai tuareg. Partendo da questa base comune, le varie tradizioni si differenziano al momento di definire con precisione quale fu la discendenza di Tin Hinan (e quella di Takama). In generale, si sostiene che le tribù più nobili discendono da Tin Hinan e quelle “vassalle” da Takama. I Kel Ghela, in particolare, il gruppo considerato più nobile, al cui interno viene di solito scelto l’amenokal dell’Ahaggar, sostengono di discendere da Kella, figlia o nipote di Tin Hinan, che avrebbe sposato il primo amenokal di cui si serbi memoria, Sidi ag Mohammed Elkhir.
La tomba di Tin Hinan
A rafforzare le narrazioni che asseriscono l’autenticità storica di Tin Hinan vi è un colossale monumento megalitico, situato nei pressi d’Abalessa, indicato come “la tomba di Tin Hinan”. Si tratta di uno di quei monumenti megalitici noti come édebni, formati dall’accumulo di massi che possono avere le forme più varie (a tumulo, a mezzaluna, ecc.), che per i Tuareg sarebbero le tombe degli Ijabbaren, popolazione di giganti dell’antichità.
Alcune campagne di scavo, in particolare quella ad opera di M. Reygasse nel 1935, hanno cercato di investigarlo. Il monumento è alquanto complesso e contiene non meno di undici vani sotterranei circondati da una spessa muraglia. All’interno fu rinvenuta una tomba contenente uno scheletro di donna, circondato da un ricco corredo funebre. L’analisi dei resti ha dato questi esiti:
“spalle larghe; piedi piccoli; statura molto alta (tra 172 e 175 cm). Patologia: lesioni evidenti di artrosi lombare localizzate a destra e accompagnate da deformazioni delle vertebre lombari e dell’osso sacro”.
Il dato interessante che emerge da quest’analisi (la donna sepolta doveva zoppicare) è la congruenza con le indicazioni d’Ibn Khaldun, il quale afferma che la progenitrice degli Hawwara (cioè Ihawwaren, oggi Ihaggaren o Kel Ahaggar) era una certa Tiski “la zoppa”.
Per il resto, va osservato che la datazione della sepoltura oscilla tra il sec. IV e il V d.C., vale a dire molto prima della nascita dell’Islam, per cui la pretesa che la progenitrice sepolta in quella tomba fosse musulmana deve essere considerata erronea. Viceversa, sembra che il tipo architettonico del monumento funebre appartenga ad una tradizione che ha il Tafilalet come uno dei suoi centri più importanti. In definitiva, considerando anche il fatto che lo sposo di Kella non sembra risalire a prima del sec. XVIII, sembra logico pensare che le tribù nobili dell’Ahaggar si siano forgiate un’ascendenza estremamente antica impadronendosi della memoria, ormai persa nelle nebbie del tempo, di quest’antica regina del Sahara.
Nel 1925, ad Abalessa, antica capitale dell’Ahaggar (Hoggar), degli archeologi scoprirono in un sotterraneo uno scheletro femminile ben conservato, con un corredo funerario, gioielli d’oro e d’argento e monete con l’effigie dell’imperatore romano Costantino. La tomba, datata al sec. IV o V d.C., fu identificata come quella di Tin Hinan, l’antenata dei Tuareg. La scoperta ha fatto sognare molti ricercatori e molti scrittori. Proveremo, sulle loro tracce, ad evocare la figura femminile che i Tuareg chiamano “La madre di tutti noi”. L’esistenza della regina Tin Hinan è tramandata nella tradizione orale. Il suo nome significherebbe “colei che viene da lontano” o “colei che si sposta”, e sarebbe stata la madre fondatrice del popolo tuareg. Attraverso i racconti ed i canti dei suoi discendenti, gli uomini del deserto, se ne può ritrovare l’immagine: “Una donna irresistibilmente bella, alta, dal volto privo di difetti, di carnagione chiara, gli occhi immensi ed ardenti, il naso fine, l’insieme della sua figura evocava bellezza ed autorità”.
Quando arrivò nell’Ahaggar, veniva da lontano, come indica il suo nome. I ricercatori ne hanno localizzato l’origine presso i berberi Bérâber del Tafilalet, una terra pre–sahariana del sud marocchino, che un tempo era molto più fertile e verdeggiante d’oggi.
Perché si allontanò da quei luoghi? Nel sec. IV, il nord dell’Africa, e in particolare la Numidia, era dominato dal potere di Roma, che aveva adottato la religione cristiana, cui si era convertito l’imperatore Costantino. La Numidia fu teatro di numerose rivolte contro i Romani. Diverse tribù di nomadi vivevano tra le coste del Mediterraneo e le regioni poste più a sud. Qualche membro della tribù marocchina dei Bérâber, con Tin Hinan, si è forse spostato dalla propria regione d’origine per ragioni ideologiche o politiche? È questa la prima ipotesi.
Altra ipotesi: un conflitto personale in seno alla famiglia o alla tribù, che può avere spinto Tin Hinan a fuggire dal proprio ambiente d’origine. Una donna intelligente e dotata d’autorità, che prende la decisione di partire... perché no?
Due donne nel deserto
La tradizione orale, raccolta nell’Ahaggar dal Père Charles de Foucauld, vuole che la regina Tin Hinan affrontasse il viaggio verso il Sahara in compagnia di un’ancella, di nome Takamat. Attraversare il Sahara è sempre un’impresa pericolosa, anche se il deserto era meno arido un tempo, rispetto ad oggi.
Immaginiamo le due donne in viaggio attraverso il deserto. Senza dubbio dovettero avere una cavalcatura: dromedario, cavallo, asino? Che permettesse loro d’evitare maggiori fatiche, e altri animali, come montoni o capre, per fornire loro il latte e la carne di cui avevano bisogno. Come sarebbero potute sopravvivere, altrimenti? Sappiamo che il dromedario comparve in Africa nel sec. II d.C., proveniente da est, e che la sua resistenza, permettendo lunghe marce, trasformò la vita dei nomadi. Nel Tafilalet, a Sijilmasa, importante stazione di scambi commerciali, sostavano le carovane dei cammelli. Benché i Tuareg dicano d’aver conosciuto il dromedario solo dopo il loro arrivo nell’Ahaggar, Hoggar, è possibile che in quel viaggio Tin Hinan avesse utilizzato una “nave del deserto”.
«Ho preso le redini e il nerbo di cuoio conciato
ed ho preso il mio mehari, per andarmene prima della fine del giorno.
Sino a che si è calmato il vento, dopo l’uragano, aveva pascolato in un luogo ameno in cui l’erba d’emshéken si mescolava ai germogli d’ämämmän.
Ho attaccato la mia sella, decorata con borchie di rame, fatta per me da un abile artigiano, dolce, sia per la cavalcatura, sia per il méharista... » (poesia tuareg).
Tin Hinan consulta il cielo
I dipinti rupestri del Sahara sono disposti lungo il percorso d’una “strada dei carri”, molto antica, che andava dalla sponda del Mediterraneo verso l’interno, attraverso pozze d’acqua, punti d’abbeveraggio, piccoli corsi d’acqua stagionali. Il piccolo gruppo al seguito di Tin Hinan dovette percorrere una tale pista, per essere sicuro di trovare l’acqua. Un proverbio dice: aman iman, “l’acqua è l’anima”.
Una regione magnifica, ma arida e difficile, quella in cui s’installa Tin Hinan. L’oasi d’Abalessa, presso Tamanrasset, offre l’ospitalità delle sue acque e dei suoi pascoli. Poté incontrarvi altri abitanti? Secondo Henri Lhote, che ha scritto numerose opere sull’Ahaggar (Hoggar), la regione doveva avere una popolazione abbastanza numerosa, documentata dall’esistenza dei palmeti di Silet e d’Ennedid e dei pozzi scavati prima dell’arrivo di Tin Hinan. Quella popolazione di pelle nera, gli Isebeten, erano però ormai quasi scomparsi, così che Tin Hinan non ebbe bisogno di battersi per installarsi in quei luoghi.
Che cosa avvenne negli anni successivi? Chi fu il padre della discendenza di Tin Hinan ? Il nome non è stato tramandato nei racconti della tradizione. Presso i Tuareg la donna gode d’uno status privilegiato ed il matriarcato è ancora la regola, per cui si tramanda principalmente la discendenza in linea femminile.
«L’antimonio imbrunisce le sue palpebre scure»
Secondo la leggenda, Tin Hinan ebbe tre figlie: Tinert, l’antilope, antenata degli Inemba; Tahenkot, la gazzella, antenata dei Kel Rela; Tamérouelt, la lepre, antenata degli Iboglân. Da parte sua, l’ancella Takama ebbe due figlie, che ricevettero in regalo da Tin Hinan i palmeti della regione, tuttora posseduti dai loro discendenti.
Eccoli installati nell’oasi d’Abalessa. Le tende bianche si ergono in un paesaggio dominato dall’alto massiccio dell’Atakor. La bellezza della natura, il silenzio della notte, il vento tra le montagne inspiravano i canti intorno al fuoco, accompagnati dal tobol (tamburo) e dall’amzad (violino monocorde).
Cantate, coriste, cantate per i giovani!
l’antimonio imbrunisce le sue palpebre, già così scure, ella ha alzato i sopraccigli,
ha ornato le gote di segni chiari, simili alle Pleiadi.
Gaïsha,cantante, che cosa succede?
Batti le mani con più ardore, batti il tamburo !» (poesia tuareg).
Tin Hinan è l’amenokal (possessore del paese), la regina di quel piccolo popolo in via di formazione. Forse, come racconta la leggenda, è l’inventrice dell’antica scrittura tuareg, il tifinagh, che si trova ancora, qua e là, graffita sulle rocce? Quei caratteri, composti di aste (gambe d’animali?) e di segni rotondi (volti, soli, astri?) servirono da riferimenti per segnare le strade attraverso il deserto? Il mistero permane irrisolto.
Sulla base delle scoperte del principio del sec. XX, i nuovi arrivati avrebbero trovato ad Abalessa un fortino, che testimoniava l’occupazione militare dei Romani, con un certo numero di stanze e di depositi. In una di quelle cavità Tin Hinan fu sepolta e fu ritrovata nel 1925, dalla missione condotta da M. Reygasse, direttore del museo del Bardo d’Algeri.
Da Tin Hinan alla conturbante Antinea
Secondo il resoconto della scoperta, ella riposava su un letto scolpito e indossava braccialetti d’oro e d’argento. Presso le caviglie, il collo e la cintura, erano sparse perle di tormalina, d’agata e d’amazzonite. Una scodella di legno conservava la traccia d’una moneta con l’effigie dell’imperatore Costantino. Gli oggetti ed il mobilio testimoniano dei rapporti tra gli abitanti dell’oasi ed i viaggiatori che venivano dall’Oriente. Tin Hinan è riuscita dunque non solo ad attraversare il Sahara, ma anche a creare in quei luoghi le necessarie condizioni di vita ed a stringere le relazioni commerciali, necessarie a garantire la discendenza del suo gruppo.
I Tuareg dell’Ahaggar hanno conservato la memoria di questa grande donna e le loro narrazioni, raccolte dal père de Foucauld, che visse come eremita a Tamanrasset all’inizio del sec. XX, ispirarono il romanziere francese Pierre Benoît che, nell’Atlantide, pubblicata nel 1920, trattò d’un giovane militare, che incontrava Antinea, un’enigmatica regina che dominava sullo Hoggar.
«Antinea ! Ogni volta che l’ho rivista, mi sono chiesto se l’avessi ben guardata allora, turbato com’ero, tanto la trovavo, ogni volta, più bella... Il klaft egiziano scendeva sui suoi abbondati riccioli che apparivano azzurri, tanto erano neri. Le due punte del pesante tessuto dorato raggiungevano le fragili anche. Intorno alla piccola fronte bombata, l’ureo d’oro s’avvolgeva, con occhi di smeraldo, e dardeggiava sopra il capo della giovane donna con la lingua biforcuta di rubini. Indossava una tunica di velo nero, dorata, leggerissima e molto ampia, appena serrata da una sciarpa di mussolina bianca, decorata da un arcobaleno di perle nere. Questo era l’aspetto d’Antinea...»
Quando gli europei giunsero a contatto con la civiltà dei Tuareg, rimasero impressionati da molti tratti di questo popolo così misterioso e così fiero. Un tratto che colpì molto la fantasia fu il ruolo della donna. Contrariamente alle altre popolazioni islamiche, la società tuareg dà grande spazio alle donne, che non si velano (a differenza degli uomini), che hanno una notevole libertà di costumi, e sono titolari del diritto di trasmettere il potere ai capi supremi (amenokal) per via matrilineare. I racconti sulla leggendaria figura di Tin Hinan, mitica regina d’un popolo misterioso, spinsero lo scrittore francese Pierre Benoit a comporre un romanzo avventuroso, L’Atlantide, che ebbe enorme successo e venne tradotto in molte lingue. In questo romanzo, si immaginava che il misterioso paese d’Atlantide non fosse da ricercarsi nel mare bensì in un mare di sabbia, il deserto del Sahara, e che il suo popolo fosse governato da una misteriosa ed inquietante regina, Antinea, evidentemente ispirata al personaggio di Tin Hinan.
L’immaginario di Pierre Benoît ci allontana dalla realtà e, per ritrovare l’antenata dei Tuareg, è preferibile leggere le opere scientifiche moderne, ma in queste la traccia di Tin Hinan è molto esile. Tin Hinan rimane una regina leggendaria, che prefigura la donna moderna, capace di creare la vita e di gestire il bene pubblico. Questa è la sua immagine tramandata dai Tuareg. Così dobbiamo cercare di farla rivivere.
Sulla scia di questo romanzo nacque tutto un filone di testi letterari, e più recentemente di fiction cinematografica e televisiva ispirati ad un’Atlantide nel deserto con una donna a capo di un popolo. La leggenda di Tin Hinan ha superato i secoli e si rinnova sotto nuove forme fin nel terzo millennio.
NOTE
1 Zeus è chiamato anche “Zeus portatore di Egida”.
2 Sin dai tempi antichi si dibatte se sia stato dato per primo il nome alla dea e poi alla città o sia successo l’inverso.(Burkert, p. 139).
3 Per sapere se il suo nome fosse già presente nella lingua eteo–cretese o meno, si dovrà attendere la decifrazione della scrittura lineare A.
4 F.J. KLUTH, The Role of Athena in Ancient Greek Art.
5 G. NEUMANN, in “Kadmos”, n.6 (1967).
6 Kn V 52 (testo 208 in Ventris e Chadwick).
7 PALAIMA, p. 444.
8 BURKERT, p. 44.
9 “I cittadini ritengono che la fondatrice della città sia una dea, che in lingua egiziana si chiama Neith, la stessa che i greci chiamano Athena: sono grandi ammiratori degli Ateniesi e dicono di essere in qualche modo simili a loro”. Timeo 21 e e “Storie di Erodoto” 2:170–175 .
10 Realizzata in oro ed avorio.
11 R. GRAVES, The Greek Myths I, “The Nature and Deeds of Athena” 25.d.
12 OVIDIO, Metamorfosi, X. AGRAULO, Libro II, 708–751. OVIDIO, Metamorfosi, XI. L’Invidia. Come Agraulo a causa di questa diventò una statua, Libro II, 752–832. OVIDIO, Metamorfosi, I. Pallade e Aracne, Libro VI, 1–145. R. GRAVES, The Greek Myths I, “The Nature and Deeds of Athena”, 25.g.
13 B. DE RACHEWILTZ, I miti egizi, Longanesi, 1983 (riedito da TEA).