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LA LUNA ROSSA
Il sogno d'Atlantide Gli arabi la chiamano alqamar alahmar: la luna rossa.
Quando il vento solleva la sabbia del deserto sino ad oscurare le sommità dell’atmosfera, la luce della luna piena può diventare rossa come il sangue. È impressionante la vista del globo incandescente che si leva enorme dall’orizzonte orientale, mentre il sole cala nella direzione opposta. Un fenomeno che noi, scettici uomini moderni, cerchiamo di spiegare razionalmente, ma che ha sempre costituito per i marinai un presagio di sventura. Dicono che con la luna rossa accadano strane cose, che si possano addirittura creare ponti di comunicazione con altri mondi.
In quelle notti tutto può accadere. Navi cariche di uomini, pur dotate di raffinati strumenti, perdono la rotta, mentre antichi vascelli, con ciurme di fantasmi, prendono nuovamente corpo attraverso le nebbie del tempo. I vecchi raccontano la storia di quella feluca carica d’uomini, con gli stendardi della mezzaluna, che fu vista entrare in una notte di luna rossa nel porto di Messina: scivolava lieve sull’acqua, circondata da una coltre di foschia, come un fantasma d’altri tempi. Attraversò l’imboccatura del porto a vele spiegate: vele nere come la pece. Virò all’interno della gran falce sabbiosa che protegge il bacino interno e si diresse verso le banchine. L’imbarcazione puntava sui moli a gran velocità, sembrava non volersi fermare; ma si dissolse nella foschia e negli spruzzi, con tutto il proprio equipaggio, pochi istanti prima di toccare terra.
Dopo molti anni, i passanti distoglievano ancora gli occhi con timore da una gran macchia nera, rimasta impressa sul molo, e si facevano il segno della croce, biascicando qualcosa tra i denti.
Una notte di luna rossa mi trovavo su una nave greca, da qualche parte nel Canale di Sicilia, a sud-est di Malta. Era un piccolo scafo di pescatori, che viaggiava per lo più a vela. Aveva solo un vecchio motore che non consentiva una grande autonomia, ma serviva solamente per le manovre d’attracco o d’uscita dai porti.
Quella notte il mare era calmo, quasi piatto, coperto da una foschia irreale. Il vento di sabbia proveniente dalla Sirte s’era trasformato in uno scirocco asfissiante e riempiva i polmoni e l’aria d’un pulviscolo impalpabile, rossiccio, dall’acre sentore d’ammoniaca. Tra quelle nubi da palude dello Stige stentava a levarsi una luna piena, con la forma d’un enorme globo rosso, leggermente schiacciato. I marinai videro nettamente l’ombra d’una grande ala nera, come d’un drago, che passava ad oscurarla per un momento. E fu tutto… o quasi. Le bussole della nave impazzirono. Non si vedevano stelle, nella foschia rossiccia che copriva il cielo, e la nave rimase come perduta in una nebbia senza tempo.
Quale non fu la sorpresa, al sorgere del sole, nell’accorgerci che ci trovavamo all’imbocco d’una baia, dominato sulla destra da una maestosa rocca; a sinistra, come una visione di fiaba, appariva una città dominata da una collina, meno alta della rocca prospiciente. La città si sviluppava su una serie di giri concentrici e culminava in un maestoso edificio, coperto da una cupola di smeraldo. Le sue mura scintillavano ai raggi del sole nascente, come coperte di metallo, di bagliori d’argento, d’oro e di fuoco.
Vedevamo altre navi immobili all’ancora nella rada, ma nessuna traccia d’attività umana. Era come se tutti dormissero, o si fossero trasferiti altrove. Non una voce, non un suono, né un filo di fumo s’alzava dai tetti della città-fantasma. Istintivamente, qualcuno dei marinai si fece il segno della croce e borbottò scongiuri tra i denti stretti. Per tutta risposta, un bronzo cominciò a tintinnare, da qualche parte, ritmicamente, come una sinistra campana che battesse a morto…
La nave non riusciva ad entrare in porto: il timoniere regolava il timone, gli uomini manovravano le vele, ma era come se una forza invisibile ci respingesse ogni volta, sulla bocca della rada. In quella zona di mare le correnti, forti come fiumi in piena, trascinano le navi per sei ore verso oriente e per altre sei nel verso opposto, ma la nostra nave non si spostava. Sembrava che una volontà soprannaturale ci trattenesse immobili. Si tentò persino d’avviare il debole motore, benché potesse essere di scarso aiuto (perché sapevamo d’essere in alto mare, nonostante la visione). Nulla: non si avviò neppure. Le apparecchiature di bordo erano morte: la radio di bordo, i telefoni, gli altri strumenti di navigazione.
Tutto il giorno durò il tentativo. Il sole salì alto nel cielo ed ebbe il tempo di calare, tra la rossa foschia dello scirocco mescolato col simùn del deserto. Si distinguevano bene i tetti e le mura della città misteriosa, che mutavano lentamente tonalità e riflessi abbaglianti sotto il sole, ma non vi appariva anima viva. Avevo con me una macchina fotografica e pensai bene di riprendere qualche inquadratura della misteriosa città, con gli effetti cangianti di luce. Poiché – però – la nave rimaneva immobile, ben presto le riprese fotografiche divennero ripetitive. Decisi d’ingannare il tempo calando una lenza in mare e illudendomi di pescare, mentre riflettevo su tutto e sul nulla della vita. Preferivo isolarmi, per non confrontare il mio nervosismo e alimentarlo con quello degli uomini dell’equipaggio.
Ci sentivamo come sospesi nel tempo e nello spazio, avevamo la sensazione che la vita di tutti gli altri uomini del mondo proseguisse indisturbata, mentre noi rimanevamo paralizzati in quel braccio di mare. Non mezz’ora, né mezza giornata: sembrava che un’eternità s’interponesse tra la nave e la sua meta. Mi vedevo, come Odisseo, impegnato nell’impari lotta contro un’oscura volontà. Mi aspettavo di sentire il canto delle sirene: l’avrei preferito a quella calma spettrale.
Era come se il miraggio silenzioso fosse uscito dai recessi del nostro inconscio: sogni di marinai, o di gente che ha studiato. Un’isola galleggiante su abissi profondi. Un’Atlantide dai tetti d’oricalco, in cui ciascuno di noi potesse sognare una regina bellissima, esclusiva e crudele, che attendeva soltanto lui. Il silenzio innaturale sembrava preludere ad un tremendo agguato. La calma superficiale non placava la tensione, perché eravamo coscienti di trovarci in una delle zone più infide e pericolose del Mediterraneo, sia per i mutamenti meteorologici, talvolta repentini, sia per la frequentazione dei nostri simili, non sempre raccomandabili.
La nostra stessa nave sembrava trasformata in un vascello fantasma. Solo pochi uomini dell’equipaggio giravano in coperta, con un atteggiamento furtivo, di finta indifferenza. Ero certo che il capitano, col personale più fidato, si fosse armato, preparato ad ogni evenienza. Nulla interveniva a spezzare il silenzio: uno squillo di tromba, il cinguettio d’un passero o un’esplosione, che ci risvegliassero dall’incubo angoscioso… Eravamo avvolti in quella bonaccia ovattata e lattiginosa, che trasformava in acque di palude uno dei bracci di mare più insidiosi del mondo.
Un giovane marinaio, incapace di rimanere inattivo, volle tuffarsi in acqua. Cercai di trattenerlo. I sensi dicevano che l’acqua era calma, che c’erano un porto ed una città, ma la ragione continuava a ripetere: no. Al contrario, eravamo in balia d’un mare sempre instabile, su fondali profondi centinaia di metri. Se il miraggio si fosse dissolto e se il vento si fosse levato improvviso, come è solito fare da quelle parti, il recupero del giovane sarebbe stato difficile. Altri marinai cercarono di fermare il loro compagno, nel dubbio che potesse esserci un pericolo nascosto…ma fu invano.
Nulla da fare, il ragazzo si tuffò. S’immerse in una sorta di nebbia evanescente, come se uno sbuffo di vapore l’avesse avvolto, e scomparve alla nostra vista. Credevamo d’averlo perso. Invece ritornò, ma soltanto dopo diverse ore, stanco e stordito. Appariva innaturalmente invecchiato. I suoi occhi sbarrati avevano visto eventi troppo forti. Da quel momento ha raccontato cose strane: dicono che non abbia più avuto la testa a posto.
Il sole non si vedeva più, nascosto dalla foschia, e la luminosità andava scemando. Le ombre s’infittivano tra la bruma che saliva ed il paesaggio intorno si offuscava, come se la città scintillante volesse spegnersi e ritirarsi lontana da noi… senza che l’avessimo mai potuta raggiungere o toccare.
Si stava approssimando il tramonto, quando una folata più densa nascose ogni cosa allo sguardo. Un’intensa raffica di vento, carico di sabbia pungente, che durò circa mezz’ora. La sabbia turbinava nei capelli, tra le sartie ed il fasciame delle scialuppe, mentre l’oscurità calava rapida, come pece di calafato spalmata nell’aria densa. Mi ritirai in gran fretta sotto coperta, con tutte le mie cose.
Durante la notte, finalmente, il tempo si schiarì. A distesa d’occhio, sotto il chiaro d’una luna ritornata d’argento, nessuna terra colpiva lo sguardo. L’acqua era calma e cupa e la corrente ci trascinava. Solo onde e torme di gabbiani, in cerca di cibo. Le code d’una famiglia di delfini – o forse di sirene? – sembravano sventolare fuor d’acqua, come per salutare. Gli strumenti di bordo erano ritornati in funzione.
La mattina seguente, la nave approdò in un piccolo porto della costa tunisina. Scendemmo a terra e ben presto la nostra avventura entrò a far parte delle leggende locali. Cercammo d’individuare la posizione in cui la nostra imbarcazione era rimasta bloccata, durante quella lunga giornata. Non eravamo però in grado d’identificare con precisione il luogo del misterioso evento, vista la lunga paralisi subita dagli strumenti di bordo.
Allora scoprii con stupore che in quella zona di mare esiste un bassofondo, chiamato dai pescatori del Canale “banco Medina”, con un termine che in arabo significa “città”. Nessuno sapeva spiegarmene la ragione. Forse – dicevano i vecchi del paese – qualche barca di pescatori aveva rotto le reti, in passato, proprio in quella posizione, ed aveva ripescato qualche oggetto: frammenti di marmo, oggetti metallici. Perciò il nome di “città” era stato dato da oltre cent’anni a quel bassofondo misterioso. Nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii a rintracciare nessun oggetto ripescato dal mare. Inoltre non c’era memoria di visioni, né di fantasmi di città emersi dalle onde.
La chiglia della nostra nave appariva striata da lunghi e profondi graffi, come se gli artigli d’un essere gigantesco avessero cercato di trattenerla.
Il giovane che si era tuffato in acqua, ed era tornato con gli occhi sbarrati per sempre verso un vuoto lontano, continuava a ripetere frasi smozzicate. Era vittima d’incubi notturni, sembrava che continuasse ad assistere ad un immane cataclisma, con uomini, donne e bambini che, sotto i suoi occhi, soccombevano vittime d’una strage superiore ad ogni comprensione umana. Dopo breve tempo, i suoi capelli divennero tutti bianchi.
Non riuscivo a spiegarmi se l’intero equipaggio fosse stato vittima di un’allucinazione collettiva, o se la notte della luna rossa avesse veramente creato le condizioni favorevoli per un “ponte” tra due mondi, ed avesse fatto riemergere dagli abissi una città che – chissà quante migliaia d’anni fa – poteva essere rimasta sommersa in quel luogo. Lì o altrove – chi sa dirlo? – la memoria collettiva dei marinai, che nei secoli hanno percorso i mari, può dar corpo ai fantasmi, agli incubi, alle paure, ma anche ai sogni più meravigliosi che abbiano ossessionato la vita dell’uomo.
Nel primo pomeriggio fui colto da un profondo sonno. Non dormivo da oltre quaranta ore e mi risvegliai l’indomani, a mattinata ben inoltrata. Avevo sudato e mi ero agitato, mi rimaneva ancora la testa ben pesante e uno strano sogno, o piuttosto un lungo e contorto incubo, mi turbinava nella memoria.
Mi riappariva, per qualche istante, la visione della città misteriosa. Non era più una città fantasma, era diventata piena di vita. Mercanti, donne, bambini si muovevano chiassosi per le strade. L’animazione più frenetica sembrava volersi prendere la rivincita sulla pausa d’immobilità, che la città aveva manifestato il giorno precedente. Mi muovevo in sogno per le vie, pienamente a mio agio, come se quell’ambiente mi fosse familiare, anzi come se fosse stato la mia culla naturale. Poi la visione si offuscava e tutto tremava, sotto l’urto improvviso d’un terremoto. Diverse scosse, lunghissime, terribili, che sembravano rompere in pezzi l’intero globo terrestre. Una pausa, un lungo silenzio innaturale, come il “fermo-immagine” d’un film… e subito un cupo rombo minaccioso scendeva dalla montagna. La valle verde di messi e di vegetazione, percorsa dal fiume che aveva dato vita alla città ed alle sue terre, si stava trasformando in un’immane cascata di terra e fango. In una lunga ora di panico, l’intera città comprese che non v’era salvezza. Non verso la terra, che andava scomparendo sotto quella marea di sporca fanghiglia. Non verso il mare, già percosso da lunghe ondate di maremoto, che avevano creato scompiglio nella flotta. La catastrofe era inevitabile. Nel mio incubo ne rivissi tutto il dramma, come se una memoria ancestrale stesse riemergendo dalle nebbie del tempo, dopo migliaia di generazioni.
Era come se un vortice mi roteasse intorno e cercasse di trascinarmi, anche quando mi alzai e cercai di ritornare agli affari quotidiani: mi sentivo travolto da un turbine d’acqua, di vento, di schiume fangose. Alla calma innaturale, all’inattività forzata del giorno prima, era subentrato nella mia mente un parossismo di movimento, di torsione. Come un uragano, o piuttosto un gorgo che mi abbracciasse, per trascinarmi nelle nere profondità. Mi sentivo instabile e percepivo come un richiamo ancestrale, una viva presenza che mi spingesse a chiudere gli occhi, per ritrovare le sensazioni, le immagini, i rumori e le voci del sogno. Per quanto quelle esperienze fossero state angosciose, mi animava il bisogno di riviverle; ma non riuscivo a richiamare il filo conduttore. Mantenevo soltanto la vaga sensazione di presenze, di fantasmi intorno a me, che mi accoglievano e mi suggerivano memorie, sensazioni, moniti. Dal buio dell’orrore si distaccava e si ripeteva incalzante, angoscioso, il singhiozzo d’un bambino.
Nelle mie fotografie di quella lunga giornata di bonaccia, quando le feci sviluppare, non appariva null’altro che una vuota, piatta distesa di mare. Nessuna traccia del porto, dell’isola, della rada misteriosa, né dei tetti della misteriosa città.
Sono passati molti anni. Altre volte ho visto strani fenomeni, nel cielo e all’orizzonte. Mi è capitato di vedere altre notti di “luna rossa”. L’esperienza di quel viaggio, però, è rimasta unica. Mai più mi sono sentito direttamente coinvolto, come “protagonista”, in un fenomeno inspiegabile.
Ogni volta che il pensiero ritorna all’immagine di quella città, rivivo il senso di totale impotenza di quella giornata. Era come se sotto i tetti, dietro le facciate di quelle case deserte ci spiassero schiere di fantasmi, come se là si celasse la grande rivelazione, che avrebbe potuto cambiare tutta la mia vita – o forse i destini del mondo intero. Un’occasione perduta… o rimandata? Quando ci ripenso, “sento” che dovrà ancora capitarmi. Percepisco l’esperienza di quel giorno, sul Canale di Sicilia, come un’oscura premonizione.
Conservo ancora i due robusti ami, con cui pescavo, per cercare d’ingannare il tempo, in quel giorno di bonaccia. Secondo le carte ci dovevamo trovare su un fondale di quasi duecento metri, ma io vedevo il canale d’imbocco del misterioso porto. Quel giorno, il primo amo rimase impigliato. Riuscii a recuperarlo con grandi sforzi: si era deformato. Pensai che si fosse agganciato a qualche relitto sommerso. Lo cambiai. Il secondo riemerse con una sorpresa. Se mai verrete a casa mia, vi mostrerò il giocattolo d’un bambino d’Atlantide: un bronzetto dorato, che raffigura un carro da guerra o da caccia, con le ruote mobili ed una catenella per trascinarlo. L’auriga leva alta una frusta. Una misteriosa iscrizione corre lungo tutte le sponde del carro. Nessuno è mai riuscito a decifrarla ma, ogni volta che la tocco, mi sembra che desideri raccontarmi una storia triste e remota. Una storia tanto angosciante, che le semplici parole non saprebbero narrarla.
Su quel piccolo oggetto è rimasta incrostata la proiezione della tragedia d’un popolo privo d’eredi, un intero popolo sepolto negli abissi, sotto una spessa coltre d’acqua e di fango. Nessuno li ricorderà, perché le loro memorie sono scomparse per sempre, travolte da un’ondata di dimensioni bibliche. Era l’epoca in cui Mosé attraversò il mare col suo popolo. Nello stesso tempo laggiù, nella Piccola Sirte, a duemilacinquecento chilometri di distanza in direzione del tramonto, una serie di terremoti fece incrinare alcuni sbarramenti rocciosi che contenevano le acque. Un enorme bacino idrico si svuotò su un popolo di sventurati e trascinò negli abissi una civiltà millenaria, che era sopravvissuta al deserto, aveva saputo prevalere sui popoli circostanti ed aveva saputo imporre la propria supremazia sui mari.
Gli eredi di coloro che avevano eretto tumuli nel cuore dell’Africa, quando le terre – un tempo fertili – erano state conquistate dal deserto, si erano stabiliti in una pianura fertilissima, circondata dai mari più belli del mondo. Avevano eretto grandi monumenti di pietra, ricoperti di metalli preziosi; avevano costruito grandi navi e creato un impero, esteso al di là dei mari. La loro capitale, su un’isola, dominava l’imbocco della baia più bella del mondo. Ancora una volta, però, la natura si accanì contro di loro. Questa volta furono proprio i mari, quei mari che avevano contribuito a creare la loro fortuna: l’uno li travolse, l’altro li seppellì per sempre. Le acque si erano richiuse sulla profonda tomba di quel bambino che giocava col carrettino di bronzo, e di tutta la sua gente. Non avrebbero più avuto eredi che cantassero la loro memoria. Le loro tracce misteriose sarebbero rimaste mute, per gli archeologi che le interrogavano.
Il mare dà la vita, il mare la porta via; il mare crea e distrugge, da sempre. Il mare, in certe circostanze, è capace anche del miracolo di creare un ponte attraverso il tempo, per portare a noi brandelli di conoscenze del passato. Solo il mare e la terra, i grembi primordiali della vita, riescono a realizzare tale miracolo, come nessun archivio artificiale potrà mai compiere. Il mare, la terra… o la luna rossa?
racconto finalista al 12° Premio "Il Prione", La Spezia, 2004.