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LETTERA DALL'AFRICA
Maam Cumba Lambaye (“la madre dei gatti”) è il genio
tutelare di Rufisque (Teng Ghegg, in
lingua wolof), magica città che sorge sulla costa sud della penisola del Capo
Verde, in Senegal. Sull’estremo lembo occidentale dell’Africa, Rufisque è
stata colonizzata dai portoghesi nel ’500, poi dai francesi. Nell’800 è
diventata per un’effimera stagione la capitale del commercio dell’arachide,
poi è decaduta ed è stata disertata dai coloni, offuscata dal nascere della
metropoli di Dakar. La nuova capitale ha un altro genio tutelare, che si
chiama Leuk Daur. Altari feticisti e boschi sacri sorgono persino sui
grattacieli, e c’è chi tiene un baobab sul balcone del quinto piano, per le
offerte propiziatorie. Sono tornato in Africa molte volte, negli ultimi vent’anni.
È accaduto in un villaggio sulla riva del fiume Chari, un tardo pomeriggio,
mentre il sole infuocava le acque e le ombre si facevano via via più scure.
Avevo trascorso diverse giornate nel villaggio, discorrendo con
l’uomo–medicina. Niente di particolare, ma di tanto in tanto percepivo nei suoi
occhi una strana espressione, come se il suo sguardo volesse entrarmi nel
profondo. Poi quel tramonto, i trampolieri nel controluce, sull’acqua che
s’increspava ad onde dolci ed ampie. L’acqua diveniva rossa e luminosa, mentre
tutto il resto del mondo si riduceva a pura linea e sagoma nera.
Da queste
spiagge, per secoli, le razzie degli europei hanno portato via ondate di
schiavi, verso coste lontane. Da qui continuano a salpare le piroghe dei
pescatori, per portare a casa il cibo quotidiano. Sugli arenili si svolgono
sessioni di lotta, si trascorrono lunghi pomeriggi giocando alla dama
africana (wurè), mentre i vecchi
conversano sotto le tettoie delle cases à
palabres. Nelle piatte distese lungo il mare, durante la stagione delle
piogge, si generano vasti stagni, con boscaglie di mangrovie dalle radici
aeree che sembrano trampoli, sbarre di gabbie o piuttosto palafitte, ma che
possono assumere anche l’aspetto d’una selva stregata.
Oggi lo scalo
coloniale è in abbandono e i moli in legno del vecchio porto sono popolati
solo da stormi di gabbiani. A Tiawlène, un quartiere della periferia di
Rufisque, abita Fat Seck, grande veggente guaritrice, una delle poche persone
abbastanza forti da ospitare in permanenza dentro di sé, senza impazzire, il
proprio rab (spirito infestante). Fat
ha dedicato la propria vita a curare le possessioni degli altri, grazie ad un
dono che le ha trasmesso sua nonna, che proviene dall’antichità della sua famiglia
e che lei stessa trasmetterà ad una discepola (non necessariamente legata da
parentela), quando saprà che “è giunta l’ora”. Dietro la casa, un vasto campo
è pieno di recipienti che contengono acqua, latte, sangue, pezzetti di legno e
ossa d’animali sacrificati. Ogni recipiente (canarì) corrisponde ad un malato, venuto da Fat Seck per farsi guarire, e contiene
il rab o ginn, lo spiritello malvagio che perseguitava e faceva impazzire.
A volte, però, l’ossessione deriva da pratiche umane, qualche nemico ha
assunto un marabù (stregone malvagio)
per praticare un interdetto (xalá). In
tali casi, l’esorcismo si fa più complesso: è necessario praticare una
“contro–magia” e liberare forze che devono ricadere su qualcuno, non soltanto
sull’animale sacrificato, ma anche sull’autore del maleficio.
Per ogni guarigione, Fat Seck prepara tre oggetti: un gran canarì (vaso di terracotta), pieno di
latte cagliato; una calebassa (specie
di zucca seccata e vuotata), nella cui acqua galleggiano pezzetti di legno,
che rappresentano la famiglia del paziente, ed i suoi rapporti col mondo
esterno; un pestello da mortaio infilato nel suolo, cioè il paziente stesso ed
il suo destino terrestre. Tutt’intorno, vengono deposti ossa e corna degli
animali sacrificati.
I poteri di Fat Seck sono noti. Un mio collega – un
finlandese, appassionato di studi sulle culture sciamaniche – ha letto un
articolo su di lei, prima ancora di venire in Senegal. Un pomeriggio, ci
rechiamo insieme a Tiawlène. La vecchia ci riceve, attorniata da donne della
famiglia, ci scruta con i suoi occhi penetranti, rivela i nostri segreti più
intimi, poi ci fa chiedere dall’interprete perché siamo venuti (Fat Seck
comprende il francese, ma non vuole parlarlo: capisce di più guardando nelle
persone, di quanto la loro bocca possa dirle). Il cortile è pieno di canarì, che imprigionano i ginn usciti
dai malati guariti, le pelli degli ultimi animali sacrificati si stanno
seccando al sole. Prima della partenza, Fat Seck ci regala due bastoncini di
legno, uno ciascuno, e c’invita a ritornare dopo qualche giorno: ci sarà una
cerimonia di ndepp, un esorcismo.
Uno ndepp “medio”: per le possessioni
più violente è richiesto il sacrificio d’un toro, per le più lievi bastano due
galletti. Il sacrificio cui stiamo per assistere prevede un capretto, come
vittima sacrificale. Il martedì successivo, alle nove e mezzo del mattino, entriamo
nel cortile. Fat Seck è rimasta in camera sua, a ricevere visite e offrire
consulti. L’officiante dell’esorcismo è una donna piuttosto giovane, Senabou:
par di capire che sia l’erede designata del rab
di Fat. C’introduce nel cortile della cerimonia e ci fa uscire, ci permette
o ci proibisce di fotografare secondo i momenti, per rispettare i significati
e le persone interessate (la malata e la sua famiglia).
Un solo uomo partecipa alla cerimonia. Coperto d’amuleti intorno
alla vita e alle braccia, sgozza il capretto e fa colare il sangue in una calebassa. Poi, la cerimonia si
frammenta. L’uomo appende il capretto per le corna e comincia a scuoiarlo meticolosamente,
seguendo un rituale prefissato e mettendo da parte, in un recipiente, alcune
parti: il cuore, il fegato, una zampa. Su questi organi, ancora sanguinanti,
sarà scaricata una parte delle forze maligne che infestano la paziente. Da
un’altra parte, in un angolo del cortile dei canarì, una giovane donna sta facendo meticolose abluzioni col
sangue della vittima. Infine, quasi di fronte al capretto scuoiato, un gruppo
di donne prende un canarì nuovo, vi
pratica un foro, e poi si fa consegnare le budella del capretto e comincia ad
annodarle: una serie di nodini, uno dietro al’altro, come una corona del
rosario. Una di loro ha la faccia terribilmente erosa. Non è lebbra, non è una
scottatura: anche l’osso della mandibola è orribilmente deformato. Veniamo
allontanati, facciamo una chiacchierata con l’officiante che si prepara
all’esorcismo vero e proprio.
Quando ritorniamo nel cortiletto, la paziente è seduta e ci
volge le spalle. L’officiante la copre con un panno, le impone le mani,
recitando formule. Poi le impone sul capo due galletti vivi e li fa roteare
più volte intorno alla sua persona, sempre più lentamente, scuotendoli ad ogni
giro verso le membra del capretto, appositamente raccolte da parte. L’uomo
continua a scuoiare. La paziente rimane seduta e canta, con le mani sulle
ginocchia, le palpebre rivolte verso l’alto. Senabou scuote più volte il panno,
con forza, la ricopre, le toglie il rab dal
capo e da ogni altra parte del corpo e lo scarica su certe parti del capretto.
Nessuno le mangerà, ma saranno conservate, imprigionate nel canarì del cortile. L’uomo recide il
membro del capretto, che comincia a girare di mano in mano: le donne presenti
si strofinano la fronte col ciuffo di pelo, pronunciando espressioni augurali.
Poi ripetono l’operazione schiacciandolo, per farne uscire il sangue, che si
passano sulla persona, e sotto la pianta del piede. Veniamo allontanati. Poco
dopo l’officiante ci raggiunge, beviamo il caffé insieme. Passiamo a salutare
Fat Seck, arriva la figlia della malata e veniamo presentati.
L’iniziazione segreta di sette giorni e sette notti, il lavoro
quotidiano di preparazione che si svolge nella casa di Fat Seck, tutto questo
ci sfugge ancora. Quando una nostra amica le rende visita e le sfugge di dire
che anche sua nonna era veggente e sensitiva, la ‘madre’ non si trattiene e – con
una punta di scettico orgoglio – fa domandare tramite l’interprete:
«Com’è possibile? Non ho mai creduto che i rab
parlassero anche ai tubàb» (il tubàb è l’uomo bianco).
Stavo accoccolato a bere la mia birra di miglio, come se il
tempo si fosse fermato. Cominciai a sentirmi fluttuare, sopra e dentro l’acqua.
Vedevo chiaramente i vortici e mi sentivo entrare nelle spire del liquido,
brillante come metallo fuso. In un silenzio gorgogliante, il vortice si faceva
sempre più profondo e aumentava la sensazione di liquido. La luminosità
rossa era ormai totale ed erano scomparse le ombre della terra. Vidi qualcosa,
come un gran serpente con un occhio luminoso al centro della fronte, un
serpente strano, dalla lunga barba bianca che si avvolgeva in ampie spire intorno
al corpo fluttuante. Non so cosa avvenne di preciso, o se fu soltanto
allucinazione. Mi trovai avvinghiato col serpente, in una lotta senza appigli
e senza tempo. La lotta fu lunga e il serpente mi lasciò solo quando riuscii a
soffiargli negli occhi – nei due occhi normali, fisici e concreti – il
tabacco spento della mia pipa. Quella notte rimasi inconscio, tra l’acqua e la
terra. Mi ritrovarono l’indomani, sulla riva del fiume, ancora bagnato
fradicio e febbricitante. Avevo in una mano la mia pipa, spenta, e nell’altra
una pietra bianca, di quarzo rilucente: il terzo occhio che ero riuscito a
strappare al serpente.
L’uomo–medicina mi ha rivelato che gli antenati hanno mostrato
la loro benevolenza, dandomi accesso ad un’iniziazione straordinaria. Così
ora sono stato accolto nel loro popolo e tutti mi trattano con enorme rispetto,
mi sento davvero a casa mia. Sono venuto come antropologo, per studiare una
realtà che mi affascinava molto, ma – per usare un gioco di parole – “sono rimasto
studiato”, perché sono diventato io, ora, il fenomeno, la persona strana che
dalla propria cultura è stata assimilata in un’altra. Potrei descrivere ed
analizzare le mie esperienze, ma la descrizione del fenomeno non m’interessa
più: perché mai, infatti, descrivere ciò che si vive? Perché cercare di
renderlo con lo strumento inadeguato della comunicazione parlata? Scrivere,
descrivere, sono nozioni appartenenti a quell’altro mondo, da cui provengo. A
volte vivo come se fossi due persone in una: l’occidentale scettico razionale
e l’africano vitalista non possono coincidere, ma riescono a sovrapporsi, con
segni ed espressioni di uguale importanza per il mio essere.
Se mai verrai qui nel mio “regno”, non ti posso assicurare
un safari per vedere gli elefanti; ma
la vita quotidiana dell’Africa, con tutto ciò che essa rappresenta, il rapporto
con la natura e col mondo degli antenati, la preparazione del cibo, la bellezza
delle giornate trascorse al villaggio, questo sì.
Racconto segnalato al Concorso letterario “un racconto per l'estate” 2004 (Borghetto Santo Spirito - SV).