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GRANDI DIGHE O PICCOLI SBARRAMENTI PER LO SVILUPPO DELL'AFRICA ?
Negli anni Settanta, nel Sahel assetato, i governanti degli Stati del bacino dei fiumi Senegal e Niger produssero un piano di sviluppo, basato sulla realizzazione di cinque grandi dighe. La regione era assetata, le stagioni delle piogge divenivano insufficienti anche per i raccolti dell'agricoltura tradizionale, mentre l'acqua dei due grandi fiumi e dei loro affluenti, se adeguatamente imbrigliata, avrebbe potuto irrigare migliaia e migliaia di ettari. Le OMV (Organisations de mise en valeur) dei due bacini fluviali si misero al lavoro, ma subito si accesero vivaci discussioni tra i fautori e gli oppositori del progetto "grandi dighe". Qualche anno dopo, la disputa si è accesa anche qui da noi. Nei progetti per frenare l'avanzata del deserto nel Sahel, l'Italia si è trovata in prima linea con i suoi programmi di cooperazione.
Il nostro Paese è famoso per la capacità dei suoi costruttori di dighe, anche in Africa, fin da quando, alla fine degli anni Cinquanta, realizzarono la diga di Kariba sul fiume Zambesi, che fornisce otto milioni di kWh di elettricità all'anno.
Il dibattito sui grandi sbarramenti riguarda un aspetto preciso della loro validità: quella di essere "fattori di sviluppo" per l'agricoltura di Paesi affamati, nei quali l'occupazione antropica del territorio si fonda sull'organizzazione ancestrale, su un rapporto con la natura di tipo puntuale e "paritario" (l'uomo vive nella natura, ma non la "padroneggia"), e l'agricoltura è basata su sistemi di autosufficienza. Leggiamo a tale proposito il parere di un esperto di pianificazione per lo sviluppo, Giuliano Cannata, autore de I fiumi della terra e del tempo (3. ed. Franco Angeli, Milano, 1987):
"Di là del fascino (molte volte anche estetico) che le dighe esercitano, l'ammirazione nasce dalla cultura dell'intrapresa e dell'assalto alla natura: gli scarichi di fondo tonanti, la lama d'acqua tracimata presi a simbolo d'una nuova, meravigliosa, natura antropizzata. Si è guardato alla diga come al fattore più efficace e rapido per lo sviluppo dei paesi nuovi, in specie di quelli di clima e ambiente arido. Lo sbarramento dei grandi fiumi africani ed asiatici per usi irrigui e idroelettrici è diventato il settore di finanziamento più importante per i finanziamenti internazionali allo sviluppo. Ma, mentre per l'energia è facile trovare rapidamente un'utilizzazione, per l'irrigazione la costruzione della diga è solo un passo... mentre Il secondo passo, quello più difficile, la messa a coltura della terra, richiede una situazione di "sviluppo diffuso" tecnica, economica e culturale, che i decenni spesso non bastano a creare. Le dighe per l'irrigazione sono perciò risultate spesso delle cattedrali nel deserto: forniscono una disponibilità d'acqua sufficiente a sfamare anche milioni di persone, ma dopo decine d'anni gli ettari effettivamente coltivati sono poche centinaia. Così, al costo ambientale pagato dalla terra e dal fiume per la diga, si aggiunge quasi sempre quello del comprensorio irriguo male utilizzato, o abbandonato".
Un parere analogo è stato espresso da Jacques Bugnicourt (recentemente scomparso), fondatore di ENDA - Tiers Monde, un'organizzazione non governativa internazionale impegnata in prima linea nei progetti ambientali e nei programmi di partecipazione popolare in Africa.
La prima grande diga a suscitare pesanti critiche per il proprio impatto ambientale è stata forse la "seconda" diga di Assuan, in Egitto, voluta negli anni Sessanta da Abdel Nasser, nel nome del quale è stato battezzato il grande bacino artificiale. Per realizzarlo, l'umanità si è impegnata anche a grandi lavori di salvataggio dei templi nubiani, che rischiavano di rimanere sommersi sotto le acque del Nilo. Una parte di questi tesori (Filae, Abu Simbel e altri templi minori) è stata smontata, pietra per pietra, e trasportata al di sopra del nuovo livello delle acque.
A distanza di tempo, il fatto che la diga trattenga nell'invaso tutto il limo fertile, che lungo i secoli aveva concimato l'Egitto per due volte all'anno, si è rivelato una conseguenza disastrosa. Anche perché l'equilibrio idrogeologico del Delta ne è risultato sconvolto: dove prima le terre avanzavano, ora è il mare che tende ad avere il sopravvento. Vi sono economisti, esperti internazionali, che hanno proposto con molta serietà di demolire la diga, prima che possa provocare danni anche maggiori. Si teme infatti che il mancato trasporto dei sedimenti vulcanici dall'altipiano etiopico arrivi ad alterare l'equilibrio dell'ittiofauna del Mar Mediterraneo.
La diga di Akosombo, costruita nel Ghana negli anni Sessanta, ha formato il più grande lago artificiale del mondo. Doveva servire a irrigare un vasto comprensorio agricolo e a generare l'energia necessaria a ricavare l'alluminio dal minerale di bauxite estratto nella zona. Oggi, trent'anni dopo, la bauxite da laorare deve essere importata dall'estero e i debiti del Paese non hanno permesso di realizzare gli investimenti in campo agricolo che avrebbero reso redditizia l'esistenza della diga.
Negli anni Settanta, il grande progetto di pianificazione economica e sociale della Somalia, orientata al socialismo, prevedeva la conversione di qualche milione di nomadi dalla pastoralizia all'agricoltura stanziale. Il progetto si basava su un'importante realizzazione idraulica: la diga sul fiume Jubba, che avrebbe consentito l'irrigazione regolare della parte più fertile del Paese. Grandi speranze erano fondate su questo progetto, che è tuttora allo studio. La grande scommessa socio-antropologica, però, sarebbe qui quella di convincere i Somali nomadi a sedentarizzarsi. E' una scommessa che, anche in tempi di pace, non può essere vinta dalla diga: può essere solamente un frutto di un cambiamento sociale, lento e aleatorio, senza il quale la realizzazione della diga non servirebbe a sfamare che poca gente: si sarebbero spese cifre ingenti per creare un altro "lago inutile" in più. Di questi "laghi inutili" l'Africa orientale conosce la storia fin dai tempi coloniali: in Uganda gli Inglesi, in Mozambico i Portoghesi avevano realizzato sbarramenti che poi furono costretti a sfondare, perché il cambiamento climatico indotto dai nuovi bacini d'acqua creava problemi sanitari difficilmente solubili.
A Cahora Bassa, nella torrida provincia carbonifera di Tete (Mozambico), un'altra diga sbarra lo Zambesi, a valle di quella di Kariba.
La sua utilità è indiscutibile: l'energia idroelettrica prodotta serve al Mozambico, con la sua capitale Maputo, e alle regioni nordorientali del Sudafrica. Il clima di tutta la zona di Tete, però, uno dei peggiori del subcontinente, si è trasformato da caldo-secco a caldo-umido, rendendo inabitabile l'intera regione.
Manantali, su un affluente del fiume Niger, nella Repubblica del Mali. La diga è finita da anni, il comprensorio irriguo è pronto, i canali costruiti. I contadini, nel frattempo, sono partiti tutti verso le città: la situazione socio-politica del Paese non è in grado di organizzare i modi di passaggio da una società contadina tradizionale all'agricoltura irrigua organizzata, e la gente teme di farsi ingabbiare dalla struttura burocratico-amministrativa che dovrebbe gestire il comprensorio irriguo. In cambio, intorno al lago si sono stabiliti numerosi gruppi di popolazioni detite alla pesca; l'acqua calma del lago ha fornito l'ambiente idoneo per ricche pesche, ma anche per l'habitat di un parassita che provoca la cosiddetta cecità dei fiumi (oncocercosi). Si tratta di minuscole larve che vengono trasmesse dalla puntura di piccole zanzare, che vivono nell'acqua corrente. Le larve, nell'uomo, vanno spesso ad insediarsi negli occhi e provocano lesioni che possono condurre alla cecità. In breve, la cooperazione tedesca si è dovuta impegnare in un costoso programma sanitario per curare i pescatori, afflitti come non mai da questa infezione cronica.
Quella di Manantali è stata una delle prime fra le dighe che oggi sbarrano il corso dei fiumi Niger e Senegal. Queste dighe sono destinate, sulla carta, a soddisfare il fabbisogno alimentare di Mali, Senegal, Mauritania, ad alimentare alcune centrali idroelettriche e anche a rifornire d'acqua le grandi città. Il primo obiettivo, però, oltre a scontrarsi con le colossali difficoltà burocratico-organizzative dell'organizzazione dei comprensori irrigui, dovrà fare i conti anche con le leggi del mercato, che regolano la distribuzione e il consumo. I grandi sistemi di irrigazione, fin dall'antichità, sono stati l'espressione di grandi Stati, fortemente accentrati: non è questa l'attuale situazione dei Paesi africani.
Coerentemente con un'analisi più attenta egli "agenti dello sviluppo", cioè delle strutture sociali e delle speranze compatibili con le attuali condizioni della popolazione, la FAO e le altre organizzazioni internazionali promuovono ormai da tempo la costruzione di sitemi integrati di "piccole dighe", la cui gestione possa essere affidata alle comunità contadine, senza richiedere grandi strutture burocratiche. I piccoli sbarramenti contribuiscono non solo a regolare il regime delle acque superficiali, ma anche ad arricchire in modo più distribuito le falde sotterranee, tramite l'infiltrazione. Non possono servire a rendere disponibili grandi quantità d'energia, ma potrebbero risollevare l'agricoltura in un continente affamato, nel quale fino ad ora i progetti di sviluppo hanno ottenuto paradossalmente il risultato principale di allontanare i contadini dalle campagne. Le varie agenzie internazionali contano molto sull'azione capillare e sul miglioramento dei sistemi tradizionali, per il rifornimento e il trattamento dell'acqua, dopo la constatazione dei molti fallimenti di "grandi progetti" destinati a generare sviluppo come colpi di bacchetta magica.
Le tecnologie concepite o adattate in modo endogeno dai paesi in via di sviluppo possono in molti casi convenire meglio a quei sistemi economici ed ecologici che non trapiantate o importante, senza essere adattate. Tale pratica ha spesso comportato la degradazione delle potenzialità agricole del paese ricevente o la diminuzione della produzione agricola... mentre tecniche antiche e sperimentate sono state abbandonate solo perché considerate "fuori moda".
"I progetti di sistemazione idraulica, come la costruzione di dighe, hanno sempre un impatto ecologico, indipendentemente dal luogo in cui si realizzano".
(Mostafa Kamal Tolba, Segretario del Programma ONU per l'Ambiente, 1982)
D'altra parte, i progetti di grandi opere continuano ad essere studiati dai Governi e dai loro esperti: qualche anno fa, l'Unione Sovietica progettava la deviazione di alcuni grandi fiumi siberiani verso le pianure interne del Paese, con il rischio di gravi alterazioni climatiche. Tunisia e Algeria vorrebbero incanalare le acque del Mediterraneo verso un'ampia e antica depressione interna, per rendere un po' più umido il clima di quella parte del deserto, e gli Israeliani progettano un canale per arricchire il Mar Morto, sempre con acqua prelevata dal Mediterraneo. Gli Stati Uniti hanno in cantiere lo sbarramento della Baia di James, una parte della Baia di Hudson grande come l'intero Mar Adriatico, allo scopo di addolcirne le acque con l'apporto dei fiumi che vi sboccano. Due grandi progetti, indicati nella cartina, vorrebbero stabilizzare il livello delle acque nel lago Ciad, con acque prelevate dal bacino del Congo. Nessuno di questi progetti è prevedibile appieno, per le conseguenze ambientali indotte: i mutamenti climatici non avverrebbero in una zona sola, ma all'interno di sistemi interregionali complessi. Le opinioni degli esperti sull'impatto ambientale dei grandi progetti sono spesso divergenti, e anche i modelli di simulazione più sofisticati non appaiono capaci di prevedere tutte le possibili variazioni indotte sul clima del Pianeta.